Le famigerate vacanze dei docenti

“Siamo quasi in vacanza, eh?!”.
Strano a dirsi, ma se lavori nel mondo della scuola, di questi tempi non trovi più nessuno che si interessi alla tua esistenza e, incrociandoti, ti mostri il suo affetto con il più classico dei “Come va?”. Anche a livello meteorologico gli insegnanti, con l’arrivo di giugno, diventano interlocutori inaffidabili, tanto che a nessuno viene in mente di attaccar bottone con una disquisizione sul tempo che fa – l’afa, la bella stagione che stenta ad affermarsi, e chissà che estate avremo. No: se sei insegnante, o comunque qualcuno che ruota nei suoi paraggi, sei condannato a tre mesi di vacanza. Te la buttano lì con nonchalance la domandina insidiosa: non “quando finisce la scuola?”, ma un più prosaico “quando cominciano le vacanze?”. E tu hai un bel dire che c’è differenza tra le vacanze degli allievi e le tue, che a metà giugno vi sono ancora scrutini e riunioni e corsi d’aggiornamento, e che già dopo Ferragosto riprenderà il tran tran preparatorio.
Forse una volta non era così: non me lo posso ricordare, ma mi è difficile immaginare il mio vecchio e burbero maestro di scuola elementare preso per i fondelli da un qualsiasi amico occasionale solo perché a metà giugno iniziavano i famosi tre mesi di vacanza. E poi – diciamocelo! – a quei tempi i maestri erano ancora missionari, e in taluni contesti strapaesani o contadini sedevano addirittura alla sinistra del sindaco (mentre a destra c’era il curato). Da dove sbuchi questa mancanza di pubblica considerazione è difficile dirlo. Di sicuro fare l’insegnante oggi è più difficile che in passato; eppure nell’immaginario collettivo si è ormai sedimentato il paradigma secondo cui due insegnanti insieme fanno un anno di vacanza. Direi che lo scorso 16 maggio, votando sull’ora in più per i docenti cantonali, abbia prevalso nella popolazione questa visione della casta privilegiata – forse acuita da certe prese di posizione corporativistiche che, francamente, erano fin troppo sopra le righe.
Anche tra i molti che a metà maggio hanno votato “Sì” – per dire che un’ora in più di lavoro non avrebbe lasciato nessun cadavere nelle aule scolastiche – ve ne sono sicuramente in abbondanza di quelli che hanno rispetto e un’alta considerazione di una categoria professionale importante e per lo più seria e impegnata. Anche se sbertucciare il professore è un gioco da bambini, è noto ai più che il “mestiere di insegnare” è oggi diventato difficile, faticoso, esposto alla critiche e in tanti casi mal remunerato. Ma l’omologazione contrattuale di cui gode la categoria non le giova di certo. Dalla scuola dell’infanzia in su, tutti gli insegnanti sono ugualmente bravi, competenti e dinamici, tanto che gli scatti di salario seguono cicli cosmici: ad ogni giro della terra attorno al sole te ne attaccano un pezzetto e dopo un tot numero di orbite – quando se va bene non sei neanche a metà della tua carriera (si fa ovviamente per dire) – sei giunto al capolinea e da lì non ti schiodi più.
Non so se quest’omologazione delle capacità e della generosità sia utile alla scuola prima ancora che a ogni singolo insegnante. Chiunque abbia avuto a che fare con la scuola ha conosciuto indimenticabili Maestri e, nel contempo, degli infiniti infingardi, fors’anche un po’ bischeri: purtroppo sembrerebbe che quest’ultimi, anche se sono presumibilmente una copiosa minoranza, contribuiscano molto più dei primi a contraddistinguere la scuola e i suoi onesti insegnanti – magari perché fanno ridacchiare anche a distanza di decenni. O forse perché il problema dell’ora in più non li tocca, né li toccherà mai. Ad ogni buon conto occorrerà pur fare qualcosa, perché di mezzo ne vanno il Paese e la scuola tutta. Per intanto godiamoci le incombenti vacanze.

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