Un’esperienza, viaggiando nel mondo della scuola

Nell’agosto del 2001 – ormai oltre settanta articoli fa – ho dato il cambio all’amico e collega Emilio Franti nella gestione di questa rubrica, con la piena consapevolezza che esperienze di questo tipo non possono durare oltre un ragionevole lasso di tempo. Discorrendo con lui – che cercava con modi suadenti di convincermi a subentrargli, perché ero del tutto restio a raccogliere il testimone – avevo capito che l’impegno poteva diventare assillante: il vincolo più o meno quindicinale presta il fianco alla ripetitività, ciò che porta a contrarre abitudini e vezzi, a tutto svantaggio del lettore. Meglio, quindi, se continuerà a perdurare la buona usanza della rotazione.
Oddio, non che i miei lettori fossero una schiera infinita… Tutti parlano di scuola e di educazione, perché tutti, in tempi più o meno prossimi, hanno frequentato una qualche scuola. E nel caso se ne siano usciti con le ossa rotte, avranno pur trovato qualche immancabile capro espiatorio, così da avere in mano, più tardi, l’infallibile ricetta dell’uovo di Colombo per appianare ogni seccatura. In questi quattro anni, tuttavia, ho cercato – non sta a me dire con quale esito – di parlare di istruzione e di educazione prendendo le distanze dai soliti stereotipi. Nel mondo della scuola, quella istituzionale, vi sono dei must imprescindibili, che vengono a galla con ciclica regolarità: il numero di allievi per classe, le note, la triade maestro-aula-allievi, l’immarcescibile selezione scolastica, che, socialmente, non è per niente cieca (anzi ci vede benissimo, e sa dove abbassare la mannaia). Ho quindi cercato di orientarmi in un mondo che sconcerta sempre più, dominato com’è dalla globalizzazione e dall’individualismo, in cui altri veicoli fuori dall’aula la fanno da padroni – almeno in parte anche grazie all’ignavia dei sistemi scolastici, sempre al traino di chi strilla più forte.
Per me, comunque, si è trattato di un’esperienza stimolante e nel contempo avvincente, perché i problemi della scuola di oggi sono i problemi di una società dominata dagli interessi particolari, da un gran numero di specchietti per allodole, dalla crescente complessità che aiuta a perdere irrimediabilmente la bussola e ad accrescere così il suo disorientamento. Chi, almeno una volta, non ha dovuto affidarsi al proprio intuito per decidere come esprimersi – sì o no – in occasione di qualche chiamata alle urne su temi finanziari, bio-etici, economici o sociali? Chi, mesi dopo, non si è sentito platealmente turlupinato perché il suo sì (o il suo no) gli si era rivoltato contro, colpendolo con un poderoso pugno sul naso? Eppure la scuola, questa nostra scuola che tanto spreme in termini economici e che influenza il nostro vivere quotidiano anche senza che ce ne accorgiamo, continua imperterrita nel solco della consuetudine, senza nemmeno intuire che – fuori – il mondo cambia anno dopo anno.
Se non che, come dice qualcuno, la democratizzazione degli studi si è tramutata nella liberalizzazione dei diplomi: venghino signori!, diplomi per tutti, certificati, bachelors, masters, dottorati. Il grande business della formazione, dove non conta cosa sai fare, mentre contano – eccome! – i pezzi di carta, i legami di sangue e le giuste conoscenze, se ne fa un baffo del suo scopo primordiale: che sarebbe la formazione di cittadini consapevoli, istruiti, capaci di esprimersi e pensare. Preferibilmente con la propria testa. No, i sistemi scolastici contemporanei sono sedotti dalle sirene del plurilinguismo, del profitto, dell’informatica, del culto del corpo sano e scultoreo: consumo e m’inchino, quindi sono. Nel frattempo chissenefrega se l’italiano va in malora, se il latino e il greco non li studia più nessuno, se la valenza di discipline come la storia, la musica, la filosofia o la storia dell’arte è ai minimi storici, se i mezzi di comunicazione di massa – ufficialmente i mastini della democrazia – privilegiano il dibattito starnazzante e l’epica del centravanti, gli amori dell’attricetta di turno e le vicende matrimoniali dei Windsor. Avanti così, a martellate sulle dita.
Nel momento del congedo definitivo da questa rubrica non posso sottacere la soddisfazione per aver potuto collaborare con un giornale serio, indipendente, equilibrato e liberale – nel senso che non esercita l’antipatica istituzione della censura. Come detto, la mia esperienza “Fuori dall’aula” è stata ricca, vera, stuzzicante. Ma è giunto il momento di passare il testimone ad altri, che meglio di me sapranno interpretare la «battaglia» per avere una scuola più attenta alla diffusa preoccupazione della società civile, che vorrebbe cittadini in grado di comunicare e pensare nella nostra lingua. Perché – si sa – è con la padronanza della lingua materna che si capisce il mondo, si imparano altre lingue, si afferma la propria identità: alla quale già si attenta abbondantemente per altre vie.

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