Ha ancora senso parlare di scuola?

La scuola, si sa, è una macchina complessa, che diventa sempre più complicata man mano che il tempo passa. Al di là del motto che vedrebbe confinati i suoi compiti al “semplice” insegnare a leggere, scrivere e far di conto, essa è invece un’istituzione che, dalla scuola dell’infanzia su su fino all’università, tende a educare, istruire, formare, aggiornare, plasmare attitudini e mentalità. Da sempre, direi, è al centro di controversie e contestazioni alle quali partecipiamo un po’ tutti. Se è spesso francamente difficile discettare, che so?, di inflazione, di rapporti internazionali o di conflitti interreligiosi, più agevole sembrerebbe la possibilità di dire la propria, magari alzando la voce, sulla nostra scuola: tutti l’abbiamo frequentata e moltissimi ne subiscono quotidianamente l’influenza, vuoi perché hanno dei figli che la frequentano, vuoi perché la scuola ha ricadute su molti aspetti della società.
Ma chi comanda la scuola? Chi determina i suoi obiettivi, i suoi orientamenti, i suoi modi di fare e di essere? Uno, nessuno e centomila, verrebbe da dire. E in effetti è quasi sempre impossibile capire chi è il direttore d’orchestra, il regista, l’autore. Numerosi contesti e innumerevoli attori influenzano le decisioni che guidano quest’istituzione dalle mille sfaccettature. Basti pensare ai cambiamenti di volta in volta indotti dalla demografia, dall’economia, dall’ideologia, dal contesto storico. Dall’infatuazione del momento. Prendiamo un esempio: si pensi a quante volte il nostro parlamento vota nuovi compiti facendo sua questa mozione o quell’interpellanza, suggerita da pressioni popolari o da guizzi individuali. Lo stesso capita negli infiniti consessi che si occupano in un modo o nell’altro di scuola. D’altra parte chi non ha mai pensato, di fronte a un nuovo problema sociale o al solito bulletto che sparge attorno a sé ogni sorta di rifiuti, che potrebbe pensarci la scuola (variante: che ai miei tempi ci pensava la scuola)? E allora ha ancora senso riflettere sulla scuola, sulla nostra scuola, e tentare di influenzare un dibattito perenne che assai raramente mette tutti d’accordo?
Fabio Pusterla, poeta, traduttore, critico letterario e insegnante, lo ha fatto per un paio d’anni curando, sul settimanale «Azione», la deliziosa rubrica «Sottobanco». Perché lo ha fatto? Perché gli «… sembrava che il dialogo tra mondo della scuola e società civile si fosse, se non del tutto interrotto, almeno notevolmente attenuato»; e perché riteneva «che l’unico modo per difendere la scuola, e per farla crescere, fosse quello di riaccendere un dibattito serio, critico ma non prevenuto, attorno a quella parte così importante della vita di tutti noi che si spende nelle aule scolastiche». Ora quelle trentotto puntate della sua rubrica sono state raggruppate in un volumetto dall’editore Casagrande con un titolo accattivante: «Una goccia di splendore – Riflessioni sulla scuola, nonostante tutto». Pusterla parla di una scuola che conosce bene. Il suo pulpito è la sua aula, nella quale da qualche lustro passano tanti adolescenti. La scuola che racconta, che difende e che critica è una scuola che cerca di andare all’essenza delle cose, facendosene puntualmente un baffo dei grandi progetti e delle riforme strombazzate a ogni piè sospinto da chi crede di aver trovato la pietra filosofale che metterà tutti d’accordo e risolverà ogni problema, anche il più controverso. Lo sguardo candido di Pusterla ci restituisce una scuola pulsante, pur crogiuolo di tutte le umane difficoltà dell’oggi incarnate dai suoi giovani allievi. A volte sarcastico, altre sommesso e intimo, sempre coerente e lucido, questo «Gocce di splendore» è un libro che consiglio con tutto il cuore agli addetti ai lavori, ai politici, ai genitori, agli studenti, ai sindacalisti e a tutti gli apprendisti stregoni di questo iperbolico cantone. Perché vale ancora la pena difendere questa preziosa istituzione. Nonostante tutto.

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