Insegnare la conoscenza a scuola non è un optional

Giusto dieci anni fa il Ticino era in piena campagna in vista della votazione sul sussidio alle scuole private, proposta poi respinta a furor di popolo. Anche adesso siamo in campagna, in vista di un’altra votazione. La chiamata alle urne di dieci anni fa era stata l’occasione per tornare a parlare di scuola, come non era più successo dai tempi del ’68, dopo oltre vent’anni di dibattiti attorno ad altri temi. Per tanto tempo il mondo in rapida trasformazione non aveva preoccupato più di tanto la scuola pubblica, almeno all’apparenza. Poi, di fronte all’attacco portato per una sorta di liberalizzazione del mercato dell’educazione e dell’istruzione, il paese ha ripreso a dibattere e a infervorarsi, per compattarsi e rimandare al mittente certe velleità di quel che all’epoca si chiamava «il nuovo che avanza». Oddio, la discussione era ruotata in gran parte attorno a temi parascolastici – mense, doposcuola, asili a orario prolungato – ma non era andata al nucleo di ciò che deve contraddistinguere il progetto dello Stato per l’educazione dei futuri cittadini, nel solco degli insegnamenti di Stefano Franscini. Tant’è che, dal 2001, il tema ha continuato a scadenze piuttosto regolari a far capolino tra le discussioni politiche; in vista, poi, del rinnovo del Consiglio di Stato del prossimo aprile, con la partenza del ministro della scuola Gabriele Gendotti, il richiamo ai valori espressi dieci anni fa in votazione popolare sembra rappresentare una giusta preoccupazione per diversi candidati.
Un interessante contributo è giunto ad esempio da Giacomo Garzoli, aspirante del PLRT al Consiglio di Stato, che ha scritto di recente (La Regione del 21.12.10): «L’educazione, da sempre, è il primo pilastro di una società sana, formata da cittadini-individui da cui, in ultima analisi, emana lo Stato. Lo Stato siamo noi, e noi siamo l’educazione che abbiamo ricevuto. Ecco perché la scuola pubblica è importante, perché deve trasmettere ad ognuno il valore della libertà e del rispetto verso uno Stato, il nostro, che grazie ai valori che riassume e rappresenta, ancora ci permette una qualità di vita invidiata in tutto il mondo». Tre giorni dopo, elogiando, gli ha fatto eco il parlamentare Franco Celio, peraltro uomo di scuola, precisando: «È in fondo il compito che le è stato affidato fin dai tempi del Franscini. L’istituzione della scuola pubblica non fu decisa solo per insegnare a tutti a leggere, scrivere e far di conto»: quell’avverbio – solo – preoccupa e fa riflettere, perché in realtà il rischio è che, di questi tempi, a quell’avverbio se ne sia sostituito un altro: neanche. Come dire: è giusto riaffermare con costanza l’importanza di una scuola pubblica forte e sana. Ma non tutto può essere ridotto in continuazione a nebulose dichiarazioni sulla democrazia e la libertà. Per essere cittadini educati, democratici e consapevoli l’istruzione è irrinunciabile. La perfetta conoscenza dell’italiano e della sua cultura – e poi, ma solo poi!, delle altre lingue – le necessarie competenze matematiche, alcune indispensabili conoscenze della storia, della geografia, delle arti, delle scienze naturali e sperimentali sono il piedistallo sul quale costruire l’educazione di cittadini responsabili, che siano davvero in grado di dimostrare coi fatti la solidarietà, la tolleranza, il rispetto, la partecipazione: insomma, per realizzare l’esercizio della democrazia. Invece si parla molto poco di questi aspetti fondamentali della scuola. Anche quando qualche analisi segnala problemi in quest’ambito – si vedano i diversi rapporti PISA – perdura la tendenza a gettare acqua sul fuoco, a minimizzare, a moltiplicare i distinguo.
C’è chi dice che Berlusconi, prima di darsi alla politica attiva, abbia istupidito il popolo italiano coi suoi canali televisivi insipienti, frivoli e volgari. Per fortuna noi non abbiamo nessun Berlusconi all’orizzonte, almeno per ora: ma i suoi canali TV hanno un grande indice d’ascolto anche da noi.

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