La scuola e quella smisurata voglia di misurare tutto

Viviamo un’epoca che chiama a gran voce le misure. Tutto dev’essere misurato, soppesato, monetizzato. Tutto dev’essere utile. Sarà per questo che talune discipline che una volta qualificavano la scuola, come la poesia, la storia o la filosofia, oggi non sono più così di moda: si possono valutare solo in parte, perché è difficile quantificare le conoscenze degli allievi e degli studenti a questo livello. Oltre a ciò sono materie poco spendibili e che non riempiono il borsello, a meno che uno, da grande, non abbia in testa di fare il poeta, il filosofo o il professore di storia. Ma è di per sé frustrante, o per lo meno sospetto, che un ragazzino o un adolescente scelga di fare un lavoro così inutile. A scuola, si sa, per misurare si usano le note. Nella scuola dell’obbligo esse vanno dal 3 al 6 e il 4 rappresenta la sufficienza. Quand’ero un ragazzino, dei libretti pieni di 4 si diceva ch’erano costellati di sedie, forma elegante per dire che valevano poco. Ma quella era una scuola che si limitava a mettere in fila gli allievi dal più al meno bravo. C’erano i maestri larghi di manica e quelli più tirchi. Capitava che se prendevi un 5 in qualche disciplina poco amata, a casa ti chiedevano le note dei tuoi compagni: il tuo 5 valeva 5 solo se i tuoi compagni avevano preso 3½ o 4, neanche il tuo 5 fosse La Gioconda.
Negli anni ’70 si cominciò a riflettere su questi meccanismi iniqui. La scuola media, ad esempio, debuttò senza la nota di condotta e senza i mezzi punti, che furono però reintrodotti già nei primi anni ’80. Dal canto suo la scuola elementare mantenne le note a fine anno e introdusse il «Libretto delle comunicazioni ai genitori», che compariva in dicembre e verso aprile. Questo documento, voluto in prima istanza proprio dagli insegnanti, intendeva mettere in primo piano cosa l’allievo aveva imparato e quali erano stati i suoi progressi. Consci dell’importanza della collaborazione dei genitori, la scelta era stata quella di instaurare un dialogo formale tra i due principali poli educanti: scuola e famiglia, appunto. Quel libretto ha resistito per oltre un trentennio, anche se, nel parlare comune, fu ribattezzato abbastanza in fretta «Libretto dei giudizi»: insomma, sembra che la scuola non riesca ad assolvere il suo mandato, che è quello di istruire e di collaborare a educare, se non può sputar sentenze ed emettere giudizi a volte impietosi, altre servili.
Il mese scorso tutti i genitori degli allievi di scuola elementare sono stati invitati dall’insegnante a un colloquio obbligatorio, durante il quale è pure stato consegnato il nuovo «Libretto delle comunicazioni ai genitori», generalizzato quest’anno dopo tre o quattro anni di atti preparatori, fasi sperimentali, corsi di formazione. Un passo avanti? C’è da dubitarne. Oltre alla denominazione, è rimasta una stringata descrizione del livello raggiunto in ogni disciplina. Di nuovo c’è l’incontro coatto con le famiglie a metà anno, nonché una valutazione, già a partire dalla 2ª elementare, che al posto delle note usa i soliti aggettivi raffermi: buono, discreto, sufficiente… In fin dei conti un passo indietro, anche se l’idea era quella di farne un paio in avanti, magari con l’intenzione di riuscire a instaurare una comunicazione trasparente, di cui il genitore potesse farne qualcosa, oltre che prenderne atto. Però è quel che il collegio degli ispettori e un gran numero di direttori hanno voluto a tutti i costi. Gian Piero Bianchi, ispettore oggi in pensione, si era opposto a questa riformetta; ha detto di recente a laRegione: «Come si può dare una nota all’amore per la lettura?». Domanda tutt’altro che retorica, anche perché si sono reintrodotte a metà anno le tanto criticate note, cha sono la fiera della soggettività, ma non si è ancora avuta l’ingegnosità di definire cosa sa un allievo che intasca un «Molto buono» in italiano, rispetto a quello reputato solo «Buono». In attesa che qualcuno dica cosa è obbligatorio sapere, la valutazione resta insufficiente.

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