La fatica di crescere e di imparare

Il vescovo di Lugano ha pubblicato recentemente una sua riflessione – «Sessualità ed ethos», sul Giornale del Popolo del 22 novembre – partendo dalle linee guida per l’educazione sessuale nelle scuole, recentemente approvate dal DECS. Monsignor Grampa pone essenzialmente la sua attenzione sul rapporto tra uomini e donne, con particolare riferimento alla famiglia e al matrimonio, oggidì calati in un contesto che sempre più «mette a dura prova la tenuta delle relazioni affettive e ancora di più la loro forza generativa e benefica». Il suo ragionamento travalica gli stretti paletti del cattolicesimo e dei precetti della Chiesa, per coinvolgere invece alcuni aspetti determinanti che hanno ricadute, a volte drammatiche, sull’intera società civile. Scrive Don Mino: «È quantomeno curioso, se non inquietante, osservare come il mondo moderno, così attento a promuovere la crescita intellettuale delle nuove generazioni, così aperto all’investimento di energie sul piano culturale, si accontenti di formare personalità che pur essendo cognitivamente evolute, sono affettivamente incistate in uno stadio evolutivo infantile, in un’affettività primordiale e incontrollata, spesso fonte di sofferenza, se non di vera e propria patologia relazionale. Il mondo degli affetti chiede dunque di essere formato e per così dire “raffinato” da un lavoro educativo, non meno lungo e impegnativo di quello richiesto per la formazione delle menti e delle cognizioni».
Avrei qualcosa da obiettare sulla presunta attenzione del mondo moderno alla promozione della crescita intellettuale e culturale dei giovani e della società tutta; mi verrebbe da dire che si tratta di un’attenzione di facciata, con dichiarazioni roboanti nei testi che fanno il corpus legislativo della scuola, ma che assai di frequente non si schiodano dalla mera enunciazione, un po’ per difficoltà oggettive, un po’ per l’attitudine “moderna” di assegnare alla scuola sempre nuovi compiti e un altro po’, infine, per una certa ignavia. Fatto sta che la scuola contemporanea è tanto selettiva quanto lo era una volta. E la selezione scolastica è tutt’altro che cieca: sa benissimo quali ceti trafiggere. Il problema è che chi perde la scommessa scolastica – perché spesso proprio di azzardo si tratta – si ritrova con un pugno di mosche e sprovvisto di quegli attrezzi intellettuali che forgiano il pensiero e offrono la capacità di affrontare il mondo, non solo quello del lavoro: strumenti che un approccio umanistico all’educazione sarebbe in grado di fornire, mentre è assai lontano da quell’orientamento utilitaristico della scuola odierna, secondo cui, per far bene, servono la conoscenza (approssimativa…) di alcune lingue (italiano compreso…) e un bagaglio di formulette e nozioni scientifiche da applicare e ricordare durante gli immancabili test.
Crescere e imparare sono percorsi difficili e, soprattutto, faticosi. E allora perché ostinarsi a percorrere questa strada disseminata di specchietti per le allodole? Servirebbe invece una scuola che sapesse portare in primo piano i valori etici ed estetici della nostra società, attraverso la conquista di competenze e ideali insostituibili. In altre parole, converrebbe dedicarsi con maggior impegno alla conoscenza della lingua italiana e della sua cultura di riferimento, alla storia, alle arti, alla speculazione intellettuale – tutte “discipline” fortemente marcate dalla presenza dell’Uomo – standosene il più possibile alla larga dall’invasiva paccottiglia che infarcisce le moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione: ciò che, volesse il cielo!, consentirebbe pure di salvare la capacità di pensare in maniera logica e sequenziale. Poi sia chiaro: i rapporti sociali che caratterizzano l’attualità sono scanditi e determinati dalla «cattiva maestra televisione», sempre più in bilico tra progetto culturale ed esortazione al consumo e alle mode vanesie. Forse per la scuola una piccola retromarcia non sarebbe sconveniente, con l’intento di scostarsi dall’ammucchiata di discipline affrontate con l’inevitabile pressappochismo, tanto simile a internet e ai programmi televisivi.

Direzione generale della scuola e autonomia degli istituti

Dunque neanche il Cantone non ne sapeva di nulla. Da diversi mesi il Municipio di Bellinzona fa e disfa le sue scuole, neanche fosse il semi-cantone di Lugano. Per fortuna il capoluogo ticinese ha assoldato un navigato Consulente, che costituisce una sorta di fondo di garanzia a protezione di ogni possibile ingombro istituzionale o legislativo. Se ancora durante il passato anno scolastico la direttrice dell’istituto bellinzonese e il suo vice finivano sui banchi del consiglio comunale ogni qual volta scrivevano o aprivano bocca (a dire il vero, ci finivano anche quando tacevano), ora si è creato un clima da dittatura illuminata: tutto è silente, forse in attesa che giungano le risposte concrete «alle visioni, agli auspici, alle idee dei bambini delle scuole in relazione alla città», visioni auspici e idee appesi all’aquilone dopo la grande adunata in Piazza Nosetto che ha aperto l’anno scolastico bellinzonese e ha dato avvio all’anno uno della nuova era. Sino ad oggi, come ha scritto il Consiglio di Stato rispondendo a un’interrogazione di Claudio Franscella e cofirmatari, il DECS e i suoi uffici hanno seguito tutta la vicenda da lontano e piuttosto passivamente, ma non mancheranno certo di esaminare e valutare ogni progetto di riorganizzazione che sarà presentato, sempre che l’esecutivo bellinzonese (con annesso Consulente) ritenga utile e importante coinvolgere il Cantone in faccende che non è detto che lo riguardino.
Intendiamoci: per certi versi, di ciò che è accaduto e sta accadendo a Bellinzona m’importa un fico secco. La Legge della scuola del 1990 ha stabilito, tra le tante cose, che «L’istituto è l’unità scolastica in cui si organizzano la vita e il lavoro della comunità degli allievi e dei docenti, con il concorso di altri agenti educativi, segnatamente dei genitori, al fine di conseguire gli obiettivi specifici del proprio ordine o grado» e che l’istituto medesimo «esercita le proprie attività in modo autonomo», naturalmente «entro i limiti stabiliti dalle leggi e dalle disposizioni di applicazione». Sino ad oggi i tanti istituti comunali del cantone non sono stati granché capaci di affrancarsi dalla presenza più o meno incombente degli ispettori e degli uffici ai quali gli stessi fan capo. Solitamente è difficile spostare foglia che l’ispettor non voglia, a meno che non si tratti di foglioline di niuna importanza, tipo il succo della festa di fine anno e la partecipazione alla sagra del paese. Bellinzona sta invece dimostrando che si deve essere più fantasiosi e spremere meglio l’autonomia prescritta dalla Legge: suvvia, siate creativi, sembra suggerire il Municipio del sindaco Martignoni, si presume con l’avallo del Consulente.
Spiace, però, che in tutto questo gran parlare nessuno accenni alle reali finalità della scuola, e di quella comunale in particolare. È pur vero – è ancora il Consiglio di Stato a dirlo – che «l’Ispettorato scolastico sosterrà la Direzione della scuola nell’indispensabile lavoro di recupero della centralità dell’apprendimento per rapporto ai progetti e alle attività proposte» una volta «superata la fase di transizione e riattivati gli abituali riferimenti e ripristinati competenze e responsabilità». A leggerlo bene, tuttavia, l’enunciato lascia intendere che nessuno sa con certezza se da settembre a oggi ci si sia preoccupati ‘della centralità dell’apprendimento’, né se tale centralità rientra o rientrerà prima o poi negli intenti del Municipio (e del suo Consulente). Forse sarebbe il caso che il Dipartimento riprendesse a occuparsi con vigore e visibilità delle finalità della nostra scuola: perché di sicuro i maestri bellinzonesi, nell’intimità della loro aula, non hanno scordato i loro obiettivi primari, al di là delle visioni dei loro allievi e degli aquiloni comunali. Ma «correggere gli scompensi socio-culturali e ridurre gli ostacoli che pregiudicano la formazione degli allievi» è un’impresa faticosa per tutti, che chiama a gran voce serenità e impegno.

C’era una volta la pedagogia. E adesso?

Un’altra voce, autorevole e chiara, si è levata recentemente per ribellarsi alla pochezza e alla sterilità della formazione pedagogica cui si deve sottoporre oggi il neo-laureato che intende dedicarsi all’insegnamento. Sul «Corriere del Ticino» del 12 gennaio scorso, il Prof. Stefano Barelli se la prende senza mezzi termini con l’imperialismo pedagogico, unilaterale e insensibile alle critiche, che permea oggi la formazione professionale dei giovani insegnanti della scuola media o di quella media superiore. «Non è possibile in questa sede – scrive il Prof. Barelli – presentare con esaustività ciò che viene negato ai docenti in formazione: con il rischio dell’eccessiva semplificazione, basterà dire che il riferimento di fondo va al cosiddetto cognitivismo di seconda generazione, e in particolare alla corrente costruttivista», una moda piuttosto tecnocratica che, da circa un ventennio, detta legge un po’ in tutti gli istituti di formazione degli insegnanti.
Non ho nulla, di per sé, contro il socio-costruttivismo, un’area delle scienze dell’educazione che può concorrere alla comprensione dei fenomeni educativi – ma che, detto per inciso, oggi costituisce l’unico asse portante della formazione di tutti gli insegnanti, e non solo di quelli che giungono dalle università. Il problema, dunque, è che in molteplici situazioni tale approccio ha sostituito e annullato decenni di riflessioni e di esperienze sull’educazione che hanno pur lasciato segni positivi e tangibili. Non sono tra quelli che reputano che basti «sapere le cose» per poterle insegnare, affermando implicitamente che più e meglio si conosce una disciplina, più e meglio si sarà in grado di insegnarla. Si tratta di un assunto che poteva forse funzionare in qualche liceo d’altri tempi, quando al liceo accedevano solo i figli di alcune cerchie privilegiate; tant’è che la pedagogia classica nasce proprio come tentativo di educare e istruire i deboli, gli emarginati, i poveri: si pensi agli orfani di Johann Heinrich Pestalozzi a Stans o a quelli di Janusz Korczak nella comunità ebrea di Varsavia, al ragazzo selvaggio e ai sordomuti di Jean-Marc Gaspard Itard, ai figli delle classi popolari di Don Lorenzo Milani o di Célestin Freinet.
La storia della pedagogia moderna – diciamo da Jean-Jacques Rousseau in avanti – è percorsa da una tensione etica e ideale basata sull’educabilità di ogni individuo, indipendentemente dalle sue condizioni sociali, economiche, sessuali o religiose. È grazie a quella pedagogia che si sono raggiunti traguardi che ancora cinquant’anni fa sembravano utopici e che sono una delle basi della democratizzazione dell’accesso agli studi: tanto per esemplificare, si pensi che ancora nei primi anni ’70 gli studenti liceali ticinesi non arrivavano a 900, mentre oggi superano i 4 mila. Nondimeno l’educazione nell’era dello zapping e della cultura del «tutto-e-subito», pone problemi inediti, di fronte ad allievi e studenti con crescenti difficoltà di attenzione, di concentrazione e di tenacia. Ancor più che nel passato, dunque, è fondamentale che la scuola non sia «indifferente alle differenze» (Pierre Bourdieu, 1970) e che si batta con fermezza contro ogni forma di darwinismo sociale. La storia della pedagogia – «Romanzo di formazione», come la ritrae il pedagogista Philippe Meirieu – costituisce un approccio epistemologico fondamentale: perché educare resta una scelta politica forte, anche se in molti istituti di formazione degli insegnanti la dimensione umanista è stata vieppiù emarginata.
Ed è proprio questo ‘Romanzo’ che è negato ai docenti in formazione, a favore di un approccio scelto unilateralmente da chi opera oggi nell’ambito delle scienze dell’educazione: un muro di gomma che sembra inespugnabile. Purtroppo la storia della scuola è costellata di infatuazioni che hanno lasciato sul campo un ammasso di rovine, senza che nessuno se ne sia mai assunto le responsabilità.

Teste ben fatte, ma non solo per allievi e studenti

Stando alle intenzioni del Consiglio di Stato, che ha licenziato nei giorni scorsi il suo messaggio al parlamento, l’alta scuola pedagogica (ASP) di Locarno sparirà presto dall’organigramma del DECS per trasformarsi in dipartimento della SUPSI: «Con questo ulteriore passo – si legge nel messaggio – si tratta di far beneficiare l’ASP dei vantaggi che verranno conseguiti entrando a far parte di una struttura universitaria di più ampio respiro, approfittando delle risorse di carattere generale, ma anche di carattere specifico dei suoi singoli indirizzi di studio, che la SUPSI può mettere in campo sul piano dell’attività didattica di base, dell’offerta di aggiornamento per i bisogni del Paese, nonché della ricerca applicata e dello sviluppo». Sta di fatto che anche l’ASP perderà parte della sua autonomia, per diventare parte integrante di un istituto universitario di diritto pubblico, con tutto quel che ne può conseguire all’atto pratico.
Naturalmente, e non poteva essere che così, c’è già chi ha messo le mani avanti e si dice preoccupato, facendo capire che questo matrimonio non s’ha da fare, almeno non nei modi previsti dai nostri sensali: perché, anche in questo caso, chi parte sa cosa lascia ma non sa cosa troverà. Eppure quest’ulteriore cambiamento – il secondo in meno di venticinque anni – non modifica sostanzialmente il quadro di partenza: l’ASP resta una scuola magistrale, i cui compiti sono la formazione di base degli insegnanti delle scuole comunali, l’abilitazione pedagogica degli altri, l’aggiornamento e la formazione continua di tutti.
Che poi, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, si sia deciso di “terziarizzare” questa formazione è un altro discorso. Si può essere o meno d’accordo sulla necessità di portare la formazione degli insegnanti a livello universitario; si tratta però di un processo inarrestabile, diffuso a livello nazionale e internazionale, che non sarà possibile interrompere e che sarebbe paradossale anche solo pensarlo. A questo punto l’inserimento dell’ASP nella SUPSI è dunque più che sensato, anche perché l’istituto di formazione attuale non è né carne né pesce. La magistrale post-liceale di tre anni dopo la maturità si era riversata pari pari nell’attuale ASP, diventando di livello terziario per durata, ma non possedendo né la mentalità né i mezzi dell’istituto universitario.
Nel frattempo, tuttavia, restano intatti i problemi della scuola di tutti i giorni, quelli dei docenti delle scuole dell’infanzia, elementari, medie e medio-superiori, confrontati con gli allievi del terzo millennio, che sono sempre più diversi dai loro coetanei di tutte le generazioni che li hanno preceduti. A ciò s’aggiunga la maggior complessità delle realtà socio-culturali ed economiche odierne. Ergo: insegnare ed educare diventa un compito vieppiù problematico. La mediazione tra le conoscenze acquisite in molteplici ambiti delle scienze dell’educazione e le esigenze della scuola dell’obbligo e dei suoi insegnanti è la vera scommessa che, se persa, genererà danni irreversibili e gravi. Per certi versi è normale e legittimo che lo specialista universitario, un po’ ricercatore e un po’ docente, si concentri sul suo ambito specifico; ma i docenti hanno bisogno di competenze efficaci per affrontare la classe nella sua quotidianità multiforme, eterogenea e complessa. L’istruzione di massa ha azzerato l’assunto, invero un po’ ipocrita, secondo cui è sufficiente “sapere le cose” e avere un po’ di “vocazione” per essere un bravo insegnante. Oggi non è più sufficiente riempire la testa dei futuri docenti di competenze disciplinari e saperi pedagogici per metterli in condizione di affrontare le classi di oggi e contribuire per davvero a forgiare buoni insegnanti. La proposizione di Edgar Morin secondo cui a teste ben piene sono preferibili teste ben fatte deve valere anche per i docenti. Sennò si rischia di continuare a mandare al fronte dei soldati in braghe corte, armati col retino per farfalle.

Docenti: mala tempora currunt

Prendendo spunto dai recenti episodi accaduti alle scuole di Minusio e Camorino, dove «le autorità comunali e scolastiche si sono trovate a fronteggiare contestazioni massicce da parte di genitori infuriati», Oliver Broggini ha steso un appassionato commento a difesa dei nostri insegnanti – «Eroi a rischio di estinzione» (Corriere del 18 settembre) – sempre più spesso vittime predestinate di genitori che, alla prima contrarietà, non esitano ad alzare la voce, a picchiare i pugni sul tavolo e a lanciare fragorose petizioni, naturalmente con l’inevitabile comunicato stampa. E la stampa, di solito, ci sta.
Oggi gli insegnanti non godono più della stima che avevano ai tempi in cui sedevano sullo stesso scranno accanto al sindaco e al curato – e anche quest’altri non hanno troppi motivi per montarsi la testa. Ripercorrere le cause di questa decadenza sarebbe lungo e non necessariamente utile, soprattutto se si pensa che quella dell’insegnante è una professione che ha stretti legami con la tradizione e una buona dose di consuetudini: basterebbe pensare che la struttura quasi paradigmatica del funzionamento di una classe – un’aula, un docente, un gruppo di allievi – è ancora quella delle origini, che risale, nella forma attuale, a quasi due secoli or sono.
Poi, col tempo, ci si sono messi un po’ tutti. Ad esempio non è più chiaro quali siano le reali finalità della scuola – e penso in primo luogo a quella dell’obbligo. In altre parole, è difficile trovare il consenso attorno a quelle due o tre imprescindibili essenzialità. Un conto è dire che la scuola deve insegnare a leggere, a scrivere e a far di conto, un altro stabilire cosa ciò significhi in realtà e nei diversi gradi, dalla prima elementare alla quarta media. Poi non c’è problema, più o meno emergente, di cui la scuola non debba o non possa occuparsi: negli ultimi decenni il parlamento e l’opinione pubblica hanno gonfiato i programmi a dismisura, impilando lingue su lingue, oltre all’educazione sessuale, stradale, alimentare, alla cittadinanza ed ecologica – con un po’ di fantasia ogni lettore può completare l’elenco a piacere. Non passa giorno senza che le direzioni scolastiche ricevano proposte didattiche dalle fonti più incredibili, da diffondere naturalmente a tutti gli insegnanti: sempre attività dai contenuti edificanti e politicamente corretti. A queste condizioni diventa impossibile far crescere e consolidare delle effettive competenze; la conseguenza è che chi può – chi, cioè, ha la fortuna di essere nato col cucchiaio d’argento in bocca – tali saperi li costruirà soprattutto in ambito familiare, perpetuando così, con la complicità di un sistema formativo sempre più disorientato, una bieca selezione sociale.
Insomma: uno dei perni principali della scuola resta pur sempre l’insegnante, che dovrebbe però agire sulla scorta di direttive chiare e di un profilo formativo adeguato. Sull’ambiguità delle direttive – in sostanza programma e obiettivi ben definiti – ci siamo capiti. Quanto al profilo formativo, sarebbe necessario aprire un altro capitolo. Non si può, però, continuare a far finta di niente. In vent’anni la società si è fatta innegabilmente più complessa, e con lei il lavoro di chi è sul campo a contatto giornaliero con allievi, studenti e genitori annessi – concretamente presenti o evanescenti come l’aria. E pure i percorsi di formazione per accedere alla funzione si sono allungati: liceo e tre anni all’ASP per i docenti delle scuole comunali, bachelor o master e due anni di formazione pedagogica per quelli del settore medio. Sul fatto, poi, che a questi tempi allungati corrispondano maggiori capacità professionali è ancor tutto da dimostrare: i più recenti raffronti internazionali – tanto per fare il primo e più facile esempio – parlano un latino abbastanza semplice. Non è invece da documentare che i salari e le possibilità di carriera sono rimasti al palo. Tra le due constatazioni c’è un abisso strutturale e concettuale che occorrerà colmare un po’ in fretta, evitando di nascondersi dietro le trite leggende della missione e dei tre mesi di vacanza.

Il blog di Adolfo Tomasini, dove si parla di educazione e di scuola