Scolarizzazione precoce tra obbligo e facoltà di scelta

HarmoS sta irritando molti svizzeri. Da qualche mese in diversi cantoni si sono aperte le danze attorno all’Accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria – HarmoS, appunto – approvato un anno fa dalla Conferenza svizzera dei direttori cantonali della pubblica educazione (CDPE). A far discutere, per ora, è l’anticipo dell’età per iniziare la scuola obbligatoria, prescritto a quattro anni. L’iter per far sì che l’accordo vada in porto è ancora lungo e non certo privo d’intoppi. Intanto i diversi parlamenti lo dovranno approvare o respingere. Ma ovviamente dietro ogni voto vi sarà spesso in agguato il referendum. Ad esempio alcuni cantoni dovranno presto recarsi alle urne per assecondare il proprio parlamento, o per sconfessarlo.
Nel nostro cantone sembrava che l’anticipo dell’età obbligatoria per iniziare la scuola non dovesse porre problemi, dato che da noi c’è la possibilità già da decenni di iniziare anche prima, a tre anni. Tant’è vero che pressoché tutti i bimbi di quattro e cinque anni frequentano la scuola dell’infanzia, mentre quelli di tre anni, a volte non accolti per motivi di spazio, raggiungono in ogni caso percentuali di tutto rispetto. Eppure da qualche mese anche in Ticino ha cominciato a circolare qualche perplessità. Ma come – sembrano dire gli scettici – già lo Stato sottrae i figli alle famiglie a sei anni, e ora si vogliono addirittura aggiungere altri due anni di vincolo statale? Sembrerebbe insomma che questo continuo allungare le mani sui bambini per toglierli sempre più presto alle famiglie sia vissuto, almeno da taluni, come una pericolosa ingerenza nelle competenze dei genitori, che si vedrebbero sempre più impotenti nelle scelte educative dei propri figli.
Per certi versi il dissenso, detto così, fila via liscia come l’olio. È pur vero che con sempre maggiore insistenza molti chiedono a gran voce che la cellula primaria della nostra società – la famiglia, appunto – torni a rivestire quel ruolo fondamentale per la costruzione di un sistema di valori ispirato alla migliore tradizione democratica (e per taluni anche cristiana). E non è certo allontanando i figli in tenerissima età dalla famiglia che si responsabilizzano padri e madri. Poi, dall’altra parte, numerosi studi in materia di educazione dicono che l’istruzione sempre più precoce è un importante investimento sul futuro di molti potenziali scienziati e letterati. Mancano comunque, almeno sino ad ora, prove sicure.
Ma non si può nemmeno tralasciare il fatto che negli ultimi decenni l’educazione di piccoli e grandi è passata di mano: dalle scelte consapevoli di genitori in chiaro sul loro ruolo educativo, il testimone si è trasferito alla TV e ai media elettronici in generale. Da quando i bambini sono diventati un soggetto commerciale di enorme rilevanza economica, sono aumentati a dismisura, e in modo assolutamente incontrollato, i canali televisivi, coi loro quiz, i giochini scemi che possono arricchirti in un attimo, i telefilm insulsi. E, naturalmente, i maghi della persuasione occulta si sono moltiplicati come insetti da laboratorio genetico.
Che fare, dunque? Certamente vi saranno famiglie che possono fare a meno della scuola per crescere bene i loro figli e per insegnar loro l’arte di comunicare sin dalla più tenera età. Per loro lo statu quo è il migliore dei mondi possibili: se voglio posso mandare mio figlio all’asilo, ma non devo. Nel contempo – detto di transenna – crescono, anche da quelle stesse famiglie, le richieste di potenziamento delle strutture scolastiche di accoglienza (vedi nidi dell’infanzia, servizi di refezione, doposcuola): e a questo livello pare lampante almeno una buona dose di incoerenza. Eppoi: siamo sicuri che la scuola sia in grado di opporsi allo strapotere dei massmedia, della creazione di bisogni fittizi, del consumo sempre più massiccio dell’utile e dell’inutile? Guardando l’evoluzione degli ultimi trent’anni non si direbbe proprio.

La violenza giovanile tra il dire e il fare

Come si sa, il passato anno scolastico è stato caratterizzato da un’impennata di atti di bullismo e di violenza d’ogni genere che hanno occupato le cronache praticamente dal primo all’ultimo giorno di scuola: si è trattato, a ben vedere, del logico prolungamento di una serie che cresce a ritmo esponenziale, ciò che ha indotto un susseguirsi di prese di posizione tra le più dissimili, spesso con qualche punto in comune. Uno tra tutti: la corsa frenetica a trovare al più presto qualche rimedio. Dopo l’assurda morte di Damiano Tamagni a Locarno, il Governo ha reagito istituendo il «Gruppo Operativo Giovani-Violenza-Educazione», composto da una dozzina di persone in rappresentanza dei più disparati ambiti che hanno a che fare con l’universo giovanile. Già in giugno il gruppo aveva stilato un suo rapporto, proponendo al pubblico dibattito una trentina di misure, per lo più di tipo repressivo. Posto che occorre in ogni modo escogitare in fretta i giusti rimedi per fermare il fenomeno, stupisce l’assenza di ogni minima misura di tipo educativo, almeno sul medio termine. È chiaro che l’emergenza chiama a gran voce qualche modifica sul grado di responsabilità dei singoli, siano essi genitori, giovani più o meno maggiorenni, magistrati o poliziotti. Ma non credo che sia possibile rinunciare all’insostituibile ruolo dell’educazione e della scuola.
Nell’ultimo decennio molti istituti scolastici hanno dedicato innumerevoli progetti al problema della violenza. Ad esempio, da noi è circolata una mostra interattiva che ha avuto un grande successo: «Conflitti, litigi e altre rotture», rivolta essenzialmente a ragazze e ragazzi dagli 11 ai 16 anni, ma che ha fatto tappa anche in molte scuole elementari. Il suo ideatore, il pedagogista Daniele Novara, ha tenuto conferenze da Airolo a Pedrinate; la sua mostra è stata acquistata dal Cantone e ha fatto tappa in tantissimi istituti, ma non ha inciso sul fenomeno del bullismo, della violenza giovanile, dell’alcolismo precoce (poi ammetto che manca la controprova: magari senza queste attività saremmo alla guerra civile). Eppure il progetto era forte e aveva saputo cogliere con un certo anticipo gli estremi di un fenomeno ancora in embrione. Come mai tante energie e tanti sforzi sono serviti a così poco?
Gli è che nell’ultimo quarantennio anche le scienze dell’educazione – una nebulosa che sarà opportuno ridefinire con una certa urgenza – hanno un po’ perso la bussola. È facile imbattersi in progetti che tendono purtroppo a separare l’educazione dall’istruzione. L’educazione civica – o educazione alla cittadinanza, per usare una definizione più alla moda – non è un insegnamento che può essere trattato come una qualsiasi disciplina scolastica. Più ancora che l’italiano o la matematica (o lo studio del violino), la civile convivenza dev’essere praticata con rigore e, soprattutto, coerenza. Non ci si può limitare a raccontare e declamare tutto ciò che sembra giusto, cristianamente o laicamente: perché fin lì siamo tutti d’accordo con quasi tutti i dieci comandamenti. Però, come in tutte le umane cose, tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo qualche intoppo. La tolleranza – per esemplificare – non la si impara «in teoria», ma la si deve vivere sulla propria pelle. E non c’è nulla di peggio che fare i giochini didattici sull’altruismo, l’integrazione e le regole della civile convivenza – ergo: parlarne e magari fare anche i test – per concludere poco e riappacificarsi ipocritamente con la propria coscienza. Meglio sarebbe se le classi costruissero queste attitudini mentre stanno imparando qualche essenzialità: come parlare, scrivere e leggere in buon italiano; come risolvere problemi; come apprezzare il bello della natura, del cosmo e dell’arte. Forse è giunto il tempo di ritrovare la grande valenza della pedagogia del rigore e della serenità, in antitesi a tutte le scorciatoie educative di questo strano tempo, che sovreccita i suoi figli sin dalla più tenera età e poi li cura col Ritanil.

Cosa deve conoscere il prof di matematica?

Qualcosa non quadra, nei requisiti richiesti per insegnare nella nostra scuola media. Per diventare, poniamo, docente di storia è necessario prima di tutto aver conseguito un bachelor in storia (appunto) presso un’università. È un percorso di almeno sei semestri di studio. Una volta acquisito il bachelor, lo studente che intende passare al di là della cattedra è tenuto a frequentare la cosiddetta formazione pedagogica dispensata dall’Alta Scuola Pedagogica (ASP), somministrata sull’arco di due anni, grosso modo a metà tempo. A quel punto – dunque attorno a 25 anni se tutto fila liscio come l’olio, scuola reclute compresa – otterrà l’agognato diploma per l’insegnamento nel livello secondario I, che sarebbe poi la nostra scuola media.
Sul Foglio Ufficiale dello scorso 15 aprile è invece apparsa l’iscrizione al corso di formazione complementare per docenti di matematica per la scuola media, che si rivolge essenzialmente a chi ha la patente di docente di scuola dell’infanzia o di scuola elementare, con un’esperienza di insegnamento di almeno tre anni. Il corso si srotolerà sull’arco di tre anni scolastici: i pretendenti alla cattedra dovranno calcolare di essere occupati “di regola, il giovedì e il venerdì e in parte fuori dall’orario scolastico (vacanze, mercoledì pomeriggio, tardo pomeriggio, sabato)”. Con circa un terzo dell’impegno, dunque, potranno far valere una competenza parificata a quella di chi percorre il naturale itinerario, attraverso l’università e l’ASP: e già questo è un bel mistero, se solo si pensa che i maestri attualmente in carica, giovani o anziani che siano, hanno interrotto la loro formazione in campo matematico al termine della magistrale seminariale – chiusa vent’anni fa – o del liceo. È sicuramente questa la principale contingenza che ha spinto il granconsigliere Francesco Cavalli a interpellare il Consiglio di Stato, chiedendo con una punta di sarcasmo: «Per insegnare la matematica nelle scuole medie è ancora necessario conoscere la matematica?».
Non appartengo a quell’affollata schiera di persone, tra cui – purtroppo – molti docenti del secondario, che snobba la pedagogia e la didattica, sostenendo che la profonda conoscenza della propria disciplina e buone doti di comunicazione e di passione siano più che sufficienti per tratteggiare il buon insegnante. Ma è ovvio che per insegnare la matematica occorre conoscerla; inoltre, anche se sembra una banalità, è necessario padroneggiarla ben oltre gli obiettivi del settore scolastico in cui si insegna. Nel caso del corso in questione, come sottolinea Cavalli nella sua interpellanza, stupisce poi che «… un docente di scuola elementare con alle spalle la formazione pedagogica ricevuta alla scuola magistrale e una buona pratica didattica, dovrebbe rinunciare per tre anni alla metà del già magro stipendio, per affrontare sostanzialmente insegnamenti già ricevuti durante la precedente formazione ».
Intendiamoci: il tentativo di creare all’interno della scuola delle possibilità di carriera, o di mobilità tra un settore e l’altro, è certamente encomiabile. Ma il dubbio è che l’obiettivo che si intende perseguire sia un altro: più che alla soddisfazione dei propri docenti, il Dipartimento sembra correre ai ripari per sopperire alla carenza di insegnanti, in questo caso di matematica. C’è tuttavia da sperare che i maestri ai quali si rivolge la lusinga – che ricorda molto da vicino la più classica delle mele avvelenate – non si spintonino troppo per avere accesso al corso (il F. U. specifica che saranno ammessi solo 20 candidati idonei). Così come lo si può leggere, e sorvolando volutamente sulle peculiarità della formazione pedagogica e didattica proposta, sembrerebbe che gli unici maestri che potrebbero concretamente imboccare il cammino senza tanti patemi economici siano quei giovani precari che devono accontentarsi di qualche effimero incarico a metà tempo: ma quale potrà mai essere la motivazione di un giovane che, non potendo esercitare la professione scelta, dovrà ripiegare sul professore di matematica alle medie?

La scuola sta bene, grazie. È la para-scuola che scricchiola…

E così anche la scuola ticinese ha fatto il check up per verificare il suo stato generale di salute. C’è voluto molto impegno per costringerla a recarsi dal medico e darsi una controllatina: addirittura una mozione parlamentare. Però alla fine, un paio di anni fa, la vecchia signora s’è convinta ed è andata dal dottore. E qualche giorno fa lo staff che l’ha analizzata ha presentato anamnesi, diagnosi e prognosi. Oddio, il paziente sta benino, almeno a sentire chi l’ha visitato. Qualche acciacco qua e là, ma nulla di che allarmarsi – eppoi neanche tutti gli esami convergono. Alla sua età  ci si sarebbe potuti aspettare ben altro. Insomma, la scuola sta abbastanza bene, soprattutto se si considera che non ha più vent’anni… È la para-scuola, invece, che scricchiola. In particolare, i medici hanno rilevato importanti insufficienze a livello di mensa e di doposcuola.
Certo che il quadro odierno fa un po’ sorridere: i fondatori della scuola pubblica e obbligatoria erano stati confrontati con l’impellenza di convincere le famiglie a mandare i loro pargoli a scuola – ed è da lì, perlopiù, ch’è nato l’attuale calendario scolastico, attento alle esigenze dell’alpeggio e della transumanza. Non era stato così facile persuadere i genitori dell’epoca, soprattutto quelli delle regioni più periferiche, che imparare a leggere, scrivere e far di conto poteva essere un bell’investimento per il futuro. In qualche caso, per convincerli, s’era dovuto far ricorso alle minacce e alla polizia. Oggi, invece, quelle medesime famiglie – fatte le debite proporzioni – hanno cambiato prospettiva: i figli a casa li vogliono il meno possibile. Eppure, a ben guardare, ci sono dei punti in comune tra quei tempi e l’oggi. Agli albori della scuola pubblica c’era chi strillava perché l’obbligo di frequenza avrebbe tolto braccia importanti al lavoro nei campi, nelle stalle e sugli alpi. Ma lo Stato aveva deciso, pur accettando qualche compromesso. A quasi duecento anni di distanza sono i medesimi gruppi sociali a premere affinché si moltiplichino mense e doposcuola, così che i loro rampolli non siano più d’impedimento al migliore sviluppo economico.
Addirittura, dal rapporto sulla ricerca  si deduce che già oltre dieci anni fa non erano «unicamente i genitori appartenenti alla classe sociale inferiore ad auspicare l’estensione dei servizi di mensa e doposcuola, ma che tale richiesta [era] condivisa anche da famiglie di origine medio-superiore». Ci mancherebbe. Sarà anche poco politicamente e sessualmente corretto, ma non sono certamente i genitori delle classi più disagiate – che sono statisticamente tanti – a vagheggiare la doppia occupazione per realizzarsi. Invece molte coppie sono costrette a lavorare come forsennate e, di conseguenza, a trovare una sistemazione per i figli durante gli orari di lavoro, affinché qualcuno possa permettersi l’esatto contrario. Altrimenti detto: provi lei, gentile lettrice ed egregio lettore, a tirare la fine del mese con un’unica occupazione, coi salari che girano e con qualche figlio a carico.
Il bello, tuttavia, deve ancora arrivare. Non ci si scordi che l’anno scolastico dura soltanto 36 settimane e mezza (sic). Ne restano una quindicina da coprire. Per intanto ci si arrabatta tra colonie varie e parenti che, in Spagna, in Portogallo o in Croazia, possano occuparsi dei figli dei camerieri e degli aiuto-cucina durante la lunga estate ticinese. Ma prima o poi la para-scuola dovrà cominciare a preoccuparsi anche di tutte quelle settimane di inoperosità scolastica. Per intanto solo alcuni comuni sono costretti a inventarsi spazi “sociali” durante le chiusure della scuola. Ma verrà il tempo in cui anche i ceti fiscalmente più attrattivi riterranno un loro diritto la settimana sciistica o le ferie estive senza figli tra i piedi. Cosa c’entri poi la scuola con la para-scuola è ancor tutto da stabilire. Per intanto è un diversivo emergente; e mentre là fuori il mondo continua a cambiare, la scuola resta avvinghiata alle sue strutture secolari.

Ma è o non è importante imparare bene l’italiano?

Leggo sempre con molto interesse la rubrica «Sottobanco», che Fabio Pusterla firma sul settimanale «Azione». Sul numero 10 di quest’anno, Pusterla si è nuovamente soffermato sull’importanza di sostenere l’insegnamento dell’italiano. Dal suo osservatorio di docente al liceo, si chiede retoricamente cosa significhi, nella realtà quotidiana, il fatto che «gli studenti, a ogni livello, sembrano oggi possedere un bagaglio linguistico minore di quello dei loro coetanei di venti o trent’anni fa», una situazione «come minimo allarmante», che «è stata discussa, studiata, monitorata». Portando come esempio la proposta di lettura del «Cinque Maggio», ben descrive la grande fatica che è necessario mettere in conto per aiutare gli studenti a sopperire alle loro manifeste lacune linguistiche e culturali. Esagerato, il prof. Pusterla? No, credibilissimo, se appena si considera che vi sono fior di studenti che entrano all’alta scuola pedagogica con l’ortografia che fa ampiamente cilecca. Che italiano insegneranno mai, una volta diventati maestri?
Ricordo che, durante la mia infanzia – diciamo a cavallo tra l’elementare e il ginnasio – mi ero divertito molto con letture indimenticabili. Penso su tutte alle «Avventure di Tom Sawyer» o ai «Ragazzi della Via Pal», senza ovviamente scordare le stupende storie di London, Verne, Stevenson, Malot, … La gran parte dei ragazzi di oggi non sono in grado, a quell’età, di affrontare da soli «Ventimila leghe sotto i mari», «Kim» o «Davide Copperfield»; e quando avranno (forse) raggiunto il livello di competenze linguistiche per percorrere romanzi come questi, cercheranno altre storie, più adatte alla loro età. Ergo: non li leggeranno mai. Nel frattempo si cimenteranno – si fa ovviamente per dire – con libri dal contenuto banale e dalla lingua scialba. Così non potranno crescere né linguisticamente, né culturalmente.
Sembra evidente che tutta la scuola, dall’elementare al liceo, abbia abbassato le sue pretese sul piano dell’insegnamento dell’italiano. I motivi di talune sciagurate scelte del passato più o meno recente sono difficili, ma non impossibili, da capire; oggi, poi, ci si mette anche l’editoria, che sforna titoli come noccioline senza curarsi troppo della loro essenza letteraria e pedagogica. Ho un collega, docente di italiano in un istituto terziario, che coltiva un passatempo stupendo: scrive libri per ragazzi. Mi ha raccontato che assai spesso le case editrici chiedono delle revisioni, poiché i testi sono giudicati troppo difficili. È una corsa al ribasso del tutto incomprensibile, che non permette nemmeno di capire chi, secondo le case editrici, potrebbe non acquistare questi libri perché troppo impegnativi: i maestri o i piccoli lettori?
«Insomma» conclude Pusterla, «il problema è gravissimo, e serve a poco dirsi che interessa l’intero Occidente; il Ticino ha se non altro un vantaggio: è piccolo». Concordo: se per davvero, al di là degli «alti lai», esiste la consapevolezza della drammaticità della situazione, allora non dovrebbe risultare così difficile metterci d’accordo un po’ in fretta e cominciare ad alzare l’asticella, dalla scuola dell’infanzia su su fino al liceo, non certo con l’intento restauratore di selezionare delle élite, ma con la dichiarata intenzione di imprimere un’impennata al livello linguistico medio di tutti i nostri allievi e studenti. Per il momento non serve molto: più che di astruserie didattiche e di complicati piani formativi per gli insegnanti, è necessario decidere che la lingua italiana è l’asse portante dell’educazione e dell’istruzione dei nostri ragazzi e giovani. Già questa dichiarazione, se non limitata al novero delle enunciazioni di facciata, sarebbe un potente strumento nelle mani della scuola. In ogni modo non è più ammissibile mettere l’italiano sul mercato della formazione, in balia d’ogni sorta di contrattazione, come se si trattasse di una materia qualsiasi. Perché è noto che meglio si legge, si scrive e si parla, meglio si pensa. Oppure è proprio questo che darebbe fastidio?

Il blog di Adolfo Tomasini, dove si parla di educazione e di scuola