Quando la scuola ha bisogno di più «voci»

Un libro singolare raccoglie opinioni diverse attorno alla missione dell’insegnamento

Di questi tempi dire che destra e sinistra sono schematismi superati è assolutamente politically correct. L’affermazione è certamente giusta se l’applichiamo ai partiti tradizionali, alle prese con la moltitudine di problemi richiesti dalla quotidiana convivenza nell’ambito dello Stato, ma mantiene intatto il suo significato tradizionale quando il dibattito verte su un tema preciso, come è certamente quello della missione della scuola. Una riprova viene proprio da questo «Deux voix pour une école»: il ministro delegato all’insegnamento scolastico francese Xavier Darcos e il noto studioso di scienze dell’educazione Philippe Meirieu, sollecitati dalla giornalista di Le Figaro Marielle Court, si lanciano in un lungo e appassionante dibattito sulla scuola, oggi al centro di molte preoccupazioni.

B Copertina deux voixIl libro ha visto la luce in maniera per lo meno bizzarra: il 15 settembre dell’anno scorso era partito un grande dibattito nazionale sull’educazione, voluto dal primo ministro Jean-Pierre Raffarin, per far fronte alle gravi tensioni che caratterizzano la scuola francese ormai da qualche anno. Così il ministro delegato e l’illustre ricercatore, che già in precedenza si erano scontrati pubblicamente su molti dei maggiori media nazionali, si trovano discretamente per alcuni pomeriggi negli uffici della casa editrice e danno vita a questo contraddittorio, la cui uscita nelle librerie era prevista per metà ottobre, con un titolo diverso Libres propos sur l’école»). Ma il 12 settembre – due giorni prima dell’apertura del dibattito nazionale – Le Monde dà notizia che il libro è stato censurato: «Dominique Ambiel, consigliere per la comunicazione del ministro Raffarin, ha fatto pressioni sul ministro delegato all’insegnamento scolastico affinché la sua conversazione con il pedagogista Philippe Meirieu non appaia». In altre parole: caro Darcos, o blocchi il libro o lasci il ministero. Meirieu, dal canto suo, reagisce pubblicizzando la sua parte del testo, ma non se la prende con Darcos, che giudica leale e coraggioso.

Strano destino quello di un dibattito nazionale voluto dalle più alte cariche dello Stato, che debutta con una censura: ma tant’è, dopo vari tira e molla il volume va finalmente in libreria, con un titolo nuovo ed esemplare: sì, perché i mondi che si incontrano sono davvero diversi, sono sul serio di destra e di sinistra. A destra il ministro, che preconizza la restaurazione dell’Autorità del maestro e della Scuola, anche se “l’ascensore della promozione sociale”, nel mondo globalizzato, non funziona più e genera frustrazione e amarezza negli insegnanti (e non solo). A sinistra lo studioso, che crede nella forza liberatrice della cultura e del sapere, e si impegna per il riscatto degli umili attraverso la scelta di educare (oltre il “semplice” diritto di avere un’educazione). Non mancano, beninteso, i punti di convergenza, in un dialogo tra due profondi conoscitori del sistema scolastico: il libro ha una sua universalità, anche se in tutta evidenza gli esempi e tante riflessioni si basano sulla realtà francese. Ma il dibattito resta franco e civile, al di là delle intense contrapposizioni e dei momenti anche duri e polemici.

La conclusione non può che trovarsi su due sponde diverse, seppure convergenti: per Meirieu “… in una democrazia il ministero dell’educazione nazionale dovrebbe essere il ministero dell’Utopia – l’utopia fondatrice di ogni speranza, quella di una cultura emancipatrice di tutti gli uomini”. Gli fa eco Darcos: “Il sapere, lo zoccolo d’una vita, si fabbrica a Scuola. Solo a Scuola, mentre tutto, attorno ad essa, ne nega il valore, a profitto dell’apparire, della comunicazione, dello spettacolo, dell’estetica del clip, dell’effimero, del litigio”. Resta la grande divisione: cultura per tutti o solo per taluni?

Insomma, un gran bel dibattito, civile nei toni e profondo nei punti di vista: Voltaire contro Rousseau, Darcos contro Meirieu, due voci per una scuola, al di là dei soliti problemi di bilancio, ma al cuore della scuola repubblicana.


Recensione pubblicata sul Corriere del Ticino del 21 gennaio 2004


Xavier Darcos, Philippe Meirieu, Deux voix pour une école, Novembre 2003, Paris : Desclée de Brouwer Éditeur, 203 p.

Ticino terra di poliziotti

In quel moccichino di terra elvetica a sud delle Alpi che chiamiamo Ticino c’è una presenza assolutamente sbilanciata di forze di polizia. Il fenomeno è quantitativo e qualitativo. L’informazione la si desume dalle cronache dei quotidiani, che nelle ultime settimane hanno ampiamente riferito di fatti, fattacci e fatterelli che hanno coinvolto l’universo giovani. Prendiamo l’opulento borgo di Mendrisio. Anche Mendrisio ha il suo bravo liceo e anche i liceali della cittadina mò-mò decidono di ritrovarsi in allegria per festeggiare il Natale e le imminenti vacanze. Il liceo, laggiù nel meridione estremo e levantino, dispone addirittura di una “Commissione feste”, che predispone l’atteso avvenimento in un noto ritrovo.
E qui, all’acme del divertimento, arrivano i nostri, che con camionette e un gran numero di piedipiatti irrompono fulmineamente all’interno del Panda: festa finita, perquisizioni, controlli alcolimetrici, sirene e fari lampeggianti, fulminei trasbordi in centrale, sequestri di innocui spinelli: sembra di essere in un film. E, soprattutto, genitori sgomenti, che nei giorni seguenti non perdono l’occasione di far giungere le immancabili lettere ai giornali. Al comando della Polcantonale spiegano che il massiccio intervento era mirato a colpire quei gestori un po’ disinvolti nell’applicazione delle leggi che regolano gli esercizi pubblici. Ma genitori e pargoletti non sentono ragioni: l’intervento delle truppe del comandante Piazzini sono giudicate sproporzionate e fuori luogo. Naturalmente i toni vanno sopra le righe, con paragoni improbabili: la polizia rompe le scatole ai nostri imprudenti ragazzetti, mentre i bordelli straripano di clienti e i ladri penetrano indisturbati nell’isolato villino delle vecchietta di turno. Un genitore raggiunte il top dell’esternazione mediatica: povero figliolo, chissà che trauma a farsi trasportare su un cellulare della polizia in un’età emotivamente così fragile…
Tutt’altra musica a Locarno. Sulle piazze della ridente cittadina sulle rive del Verbano (si fa ovviamente per dire, perché c’è poco da ridere) imperversa da tempo un’orda di giovinastri che spacca tutto, imbratta, provoca, taglia pneumatici e crea vistosi e minacciosi assembramenti. Sotto Natale il branco se l’è presa perfino con il mega-albero posato nella mega-rotonda di Piazza Castello. A Locarno tutto è mega: mega l’albero, mega la rotonda, mega il debito pubblico, mega le beghe tra maggiorenti locali. E la polizia? Cosa fa quella stessa polizia che vezzeggia affettuosamente i ricchi liceali del Mendrisiotto, perdendoci pure la faccia davanti agli apprensivi genitori? Va lì come una strampalata armata un po’ picaresca, non riesce ad acciuffare neanche uno straccio di sprayer e in più qualche agente finisce all’ospedale, malmenato da giovani costretti sulla pubblica via in assenza di un qualsiasi gradevole Panda.
Ma, ormai, son due mondi diversi e distanti. Pensate: un papà di Ligornetto che aveva il fragile figlio al Panda quel fatidico 19 dicembre si è rivolto ai giornali per denunciare e segnalare alla pubblica opinione i sistemi della nostrana polizia, sempre meno «educativa» e sempre più vessatoria. A Locarno, invece, nessun genitore si è sognato di scrivere ai giornali. Meglio mandare la polizia a quel paese e accusarla di non riuscire ad acciuffare i ladri. Intanto il solito scialbo qualunquista ha lanciato l’ennesima petizione, per chiedere il coprifuoco dei minorenni dopo una certa ora e per creare squadre di vigilantes volontari che tengano l’assediata città sotto controllo.
C’è, insomma, una voglia accresciuta e impellente di dare consigli e di sostituirsi all’autorità. Però vien da chiedersi: cosa sarebbe capitato se nel Panda strapieno e un po’ brillo fosse scoppiato un incendio? Si sarebbe accusata la polizia di dedicare troppo tempo ai bordelli? E se la polizia fosse intervenuta in forze a Locarno? Probabilmente il papà del liceale di turno avrebbe scritto ai giornali, per accusare le forze dell’ordine di usare metodi sproporzionati. Insomma: siamo di fronte a un Ticino squilibrato e contraddittorio. Vediamo di metterci d’accordo, perché i nostri figli hanno bisogno di messaggi chiari, più che di coccole e difese a oltranza.

Quella scuola che sfrittella il pensiero

Questo articolo è apparso nell’inserto culturale del Corriere del Ticino del 12 gennaio 2004 (Eccolo!).

Sarà l’effetto del Supercampiello 2004, vinto con il romanzo Una barca nel bosco, fatto sta che questo La scuola raccontata al mio cane, della torinese Paola Mastrocola, è diventato in pochi giorni uno dei libri più acquistati in Italia, successo di vendite non così scontato se si pensa che il volume è una sorta di saggio su un «mestiere che non c’è più». «Io insegnavo facendo letteratura» scrive unel prologo. «Tutto qui. Per me, il  mio mestiere era semplicemente questo: insegnare letteratura. Adesso, improvvisamente, direi da un giorno all’altro, chi la pensa così è tagliato fuori».

La scuola raccontata al mio cane è un’aspra e circostanziata requisitoria contro il liceo italiano, giocata sui registri dell’ironia e del sarcasmo, della rabbia e dell’amore profondo nei confronti della Scuola e della gioventù: confrontata con i POF – i cosiddetti Progetti d’Offerta Formativa della riforma morattiana – e con il primato della lingua “che comunica”, Paola Mastrocola reagisce con una forza argomentativa inusitata per denunciare senza mezzi termini una Scuola che «Si adegua pari pari al mondo, non gli va contro neanche un po’, combacia perfettamente: lo riflette, lo copia, lo reduplica. Non oppone nulla di alternativo. È una scuola che “connive” con la società. Lo so che il verbo connivere non esiste, ma vorrei usarlo lo stesso; in latino voleva dire: “chiudere gli occhi”, quindi far finta di niente, essere complici». POF e comunicazione: con i POF la scuola si prostituisce, adeguandosi a richieste bottegare, che mettono il corso di chitarra o quello di giardinaggio davanti a Dante e ad Alessandro Manzoni. La lingua “per comunicare” è l’altra perversione, che intacca e avvolge anche l’insegnamento delle lingue straniere. «La nostra prima e forse unica preoccupazione – scrive in uno tra i tanti gustosi capitoli – è di renderli in grado [gli studenti] di… andarsi a comprare la baguette a Parigi! E va anche bene così, ma… forse ci sarebbe un altro modo, più “alto”: il modo indiretto e alto della lettera­tura. Potrei far leggere loro i romanzi di Gide e Stendhal, le poesie di Rimbaud e Apollinaire. Lì non sta scritto come si chiede una baguette in panetteria, è vero: c’è scritto molto di più! E davvero noi crediamo che un ragazzo che sappia leggere Rimbaud non sia poi in gra­do di andarsi a comprare una stupida baguette? Credia­mo questo veramente? Diamo così poca fiducia alla let­teratura? Sì. Non la riteniamo in grado di “fornire gli strumenti adeguati”. Diamo invece un’enorme fidu­cia… agli strumenti adeguati in sé: insegniamo per cin­que anni a chiedere una baguette! Non pensiamo che, se è facilissimo scendere da Rimbaud alla baguette, non è invece affatto facile, anzi, forse è impossibile, salire dalla baguette a Rimbaud: questo vuol dire che noi pri­viamo per sempre i nostri ragazzi dell’“altezza” di Rim­baud, e li releghiamo per sempre alla “bassezza” quoti­diana e concreta della baguette».

Certo, il liceo italiano non è il liceo ticinese, così come l’attuale Ministero Italiano dell’Istruzione ha apparentemente poco a che vedere col più nostrano e metamorfico DECS, che in fondo – come nell’intera Europa occidentale – null’altro ha fatto se non adeguarsi alle tendenze più pacchiane e diffuse. In fondo, come annota argutamente Paola Mastrocola, il ’68 è la matrice primigenia dell’attuale stato delle cose: «… era giusto volere una scuola meno autoritaria, nozionistica, severa, elitaria, separata, astratta, non socialmente attenta. Giusto. Ma era giusto trent’anni fa! La Battaglia è stata fatta, e ha ottenuto esiti direi mol­to positivi. Bene. Quello che oggi mi sconcerta è il con­statare che si continua imperterriti quella stessa Batta­glia, una Battaglia cioè che non solo è già stata vinta, ma che oggi non ha più alcun senso combattere, dal mo­mento che il nemico è cambiato, anzi… è esattamente il nemico opposto a quello che avevamo allora». Che fare dunque? Come tentare di avviare una nuova Rivoluzione affinché la scuola – e il liceo in particolare – riesca a uscire in fretta e con prepotenza dallo strapiombo strumentale in cui si è ficcata, in parte per comodità e in parte per cecità? Come rimediare alla realtà, che ha disinvoltamente trasformato l’utopica democratizzazione degli studi nella democratizzazione dei diplomi e dei titoli di studio?

A Paola Mastrocola piace vestire i panni dell’«avvertitore di verità». Nella fiaba I vestiti nuovi dell’imperatore «…c’è un bambinetto da nulla che, in mezzo al corteo osannante, avverte: l’imperatore è nudo!». Ed è nudo proprio in virtù di una formazione annientata dai bisogni immediati, mercantili, utilitaristici e – soprattutto – facili. Chiaro: per imboccare un nuovo corso consacrato all’educazione inutile – la letteratura italiana, secondo Paola Mastrocola; ma si potrebbero ricordare per analogia la storia e la filosofia, le lingue ‘morte’ e tutto quanto rende grande la tradizione umanistica – ci vogliono Maestri in gamba, la cui definizione non è davvero facile: «Diciamo che noi, quando uscivamo dalla lezione di un maestro, camminavamo per un bel po’ a un metro da terra. Diciamo che quel metro da terra fa la differenza. […] Diciamo che forse questo contraddistingue un maestro: ti contagia». Il problema è come misurarlo, quel metro in più, considerato che «… un insegnante che non insegna procura un danno davvero incalcolabile al singolo allievo, e quindi anche all’intera società: condanna all’ignoranza, […] quindi al vagolamento professionale infinito».

La scuola raccontata al mio cane non è e non pretende di essere un libro di pedagogia, scritto da addetti ai lavori per addetti ai lavori, e nemmeno contempla un catalogo di soluzioni. Paola Mastrocola si diverte a raccontare la sua storia di insegnante di lettere del liceo italiano, confrontata oggi con una miriade di interferenze e di pedagogismi che hanno finito per stravolgere il senso stesso della Scuola: da luogo di trasmissione e di formazione, a parco giochi e centro sociale, dove il pensiero si sfrittella invece di strutturarsi. L’autrice, che rivendica dalla prima all’ultima pagina il suo diritto di essere solo e semplicemente un’insegnante di lettere, mette in luce con grande intelligenza le derive che scaturiscono dal primato della pedagogia e della didattica sulle competenze disciplinari. Essere bravi insegnanti, oggi più di ieri, significa riuscire a destreggiarsi in perfetto equilibrio tra la profonda conoscenza di ciò che s’insegna e la cultura pedagogica per saperlo insegnare. Dal ’68 in poi si è fatto un gran parlare dell’importanza del “saper essere” e del “saper fare” rispetto al “sapere-e-basta”: ogni pedagogista accorto sa però che non è possibile costruire tali attitudini sul vuoto pneumatico. In tutta evidenza il discorso non tocca solo il liceo, né quello italiano in particolare.

Scuola, cultura religiosa e indifferenza

Sotto l’albero di Natale il Ticino laico ha trovato il nuovo vescovo. Come si sa, erano diversi mesi che, chi più chi meno (e chi niente del tutto), si aspettava questa elezione. La sorte – chiamiamola così, laicamente – ha voluto che il successore di Monsignor Giuseppe Torti fosse proprio quel Don Mino Grampa conosciuto nel mondo della scuola per essere stato per tanti anni rettore del Collegio Papio di Ascona, ma ancor più noto per essersi battuto in prima linea in occasione della votazione del 18 febbraio 2001 a favore del finanziamento delle scuole private.
Si può immaginare che, in ambito scolastico, qualche spirito passionalmente anticlericale o religiosamente apatico abbia platealmente storto la bocca alla notizia di tale nomina, intravedendo nella designazione di Don Mino a Vescovo della diocesi di Lugano chissà quale possibilità di nuovi rigurgiti all’assalto della scuola pubblica. Personalmente non credo che, sui tempi brevi, sarà ancora possibile una battaglia politica come quella di quasi tre anni fa; nel contempo altre grane non da poco stazionano in reconditi cassetti del nostro Governo e della Curia vescovile. È il caso – per citare l’esempio più arroventato – dell’iniziativa parlamentare inoltrata il 2 dicembre 2002 da un gruppo di granconsiglieri, che han fatto proprio un postulato dell’«Associazione per la scuola pubblica del Cantone e dei Comuni in Ticino».
L’atto parlamentare chiede in sostanza che si modifichi la Legge della scuola, là dove sancisce che “L’insegnamento della religione cattolica e della religione evangelica è impartito in tutte le scuole obbligatorie e postobbligatorie”. Al posto dell’ora di catechismo (facoltativa) appaltata alle due Chiese ufficiali, l’iniziativa propone che “In tutte le scuole obbligatorie e post obbligatorie [sia] impartito per tutti gli allievi un corso di cultura religiosa con le seguenti finalità: a) sviluppare progressivamente la conoscenza di quegli elementi del cristianesimo e della sua storia che risultano indispensabili per la comprensione della cultura e della tradizione europee; b) avvicinare i giovani, mediante riferimenti a religioni storiche diverse da quella cristiana, alla comprensione dell’universalità del fenomeno religioso, così da favorire il rispetto di ogni atteggiamento (di adesione ad una fede, agnostico o ateistico)”.
Perché quest’importante atto parlamentare non sia ancora stato evaso è facilmente intuibile. Gli interessi in gioco sono chiaramente molteplici, e non tutti facilmente confessabili. Scegliere tra obbligare tutti a dotarsi di una cultura religiosa o consentire solo a taluni di farsi catechizzare (escludendo tutti gli altri) è e sarà un  negoziato sofferto, vuoi per questioni filosofiche e, più in generale, politiche, vuoi per questioni più bassamente di parrocchia. Detto questo, credo che il nuovo Vescovo ci metterà del suo, perché è culturalmente vicino al progetto di un’educazione religiosa obbligatoria per tutti gli allievi. A suo tempo avevo avuto modo di sentirlo affermare – nel suo stile ruvido e impetuoso – che il luogo della catechesi è la parrocchia; e ancora lunedì scorso, intervistato per la Radio svizzera da Salvatore Maria Fares, ha ribadito la sua preoccupazione per l’indifferenza e il menefreghismo imperanti, ma ha pure lanciato un appello (ai cattolici?) contro la criminalizzazione degli atei. Preoccupazioni sacrosante, che sono anche quelle di molti laici.
Di sicuro la proposta di modifica della Legge della scuola, sostenuta invero con un certo distacco anche da ambienti che dovrebbero essere insospettabili, rappresenterebbe un sicuro e decisivo passo verso quel ritorno ad una scuola umanistica che in molti han cominciato a reclamare a gran voce. E d’altra parte chi ha a cuore le sorti del Paese e della sua Scuola non può esimersi dall’inquietarsi, assieme a Monsignor Grampa, per l’ipocrisia e l’indifferenza sempre più diffuse. Sempre che anche lui, come molti altri, non finisca ostaggio di chi vede in ogni cambiamento e in ogni modernizzazione la perdita di qualche misera prerogativa.

Teste ben piene e teste ben fatte

Qualcuno che si firma “Una mamma di Massagno” è intervenuto sabato scorso su questo giornale per “…portare alla ribalta un’altra problematica sull’argomento «scuola», quella relativa ai programmi per la scuola elementare”. Lo so che bisogna sempre diffidare di chi si firma “Una mamma”, sia essa di Vaglio o – come in questo caso – di Massagno, perché non si sa mai bene chi scrive e per quale motivo; ma questa volta le domande poste sono tutt’altro che peregrine. La “mamma” in questione, che dice d’aver frequentato le scuole in Italia e di essere sobbalzata sulla sedia quando ha letto i nostri programmi della scuola elementare, si chiede: “Perché in Ticino un bambino di terza elementare deve affrontare un programma di storia che ha come unico oggetto il proprio nucleo familiare, più tardi la parentela più allargata? Che posto è relegato alla conoscenza dell’evoluzione dell’uomo dalla preistoria alle civiltà classiche, dalle invasioni barbariche in Europa al Medioevo, e via dicendo?”.
Brava “mamma”, belle domande. Qualche normale cittadino, leggendo la lettera, avrà trovato naturale prendersela con pedagoghi e psicologi, giacché è purtroppo vero che programmi siffatti sono tipici prodotti di chi mette al centro dei propri assilli il “come” insegnare, senza troppo preoccuparsi dei contenuti stessi dell’insegnamento. Nel nostro caso la faccenda ha però contorni un pochino diversi. Diciamo, per cominciare, che questi programmi sono nati, all’anagrafe, nel 1984. Per dei programmi scolastici lo scadere dei diciott’anni dovrebbe coincidere col meritato pensionamento, piuttosto che con la maggiore età. “Questi” programmi sono invece anche più vecchi e, per una volta, il padre è uno solo – il Consiglio di Stato – mentre le madri sono molteplici e di svariate età. Ricordate il vecchio ’68? Beh, questi programmi sono figli suoi, nati purtroppo in provetta da un intruglio di ovuli dalle più incredibili origini, quasi a dimostrare che è sempre sbagliato buttar via il bambino con l’acqua sporca.
All’inizio degli anni ’70 era saggio e doveroso prendersela con l’eccessivo e sterile nozionismo che caratterizzava la scuola. Erano gli anni in cui si proclamava che “imparare a imparare” e “imparare a essere” erano processi assai più importanti che declamare il nome dei villaggi della Valcolla o recitare a memoria l’elenco dei cantoni svizzeri con relativo capoluogo. Che occorresse cambiare quella scuola non l’ho mai dubitato; ma più che lottare contro il più torvo nozionismo, il cui unico scopo sembrava essere quello di selezionare le aristocrazie future, era necessario agire per una scuola più giusta e democratica, dove anche i figli dei meno accreditati potessero rivelarsi i migliori, se solo si fosse anteposta la sottigliezza di mente alle capacità mnemoniche.
Invece cos’è successo? Che i tempi sono andati per le lunghe, e mentre gli anni passavano le commissioni e i gruppi di lavoro erano ancora concentrati sugli slogan ormai d’antan. Tanto per dirne una: mentre il Consiglio di Stato approvava i “nuovi” programmi, la Apple aggrediva il mercato con Macintosh, di cui i “nuovi” programmi manco immaginavano l’esistenza. Nel frattempo sono passati quasi quarant’anni. La scuola si è fatta anche più selettiva di prima, naturalmente con altri crivelli, e a rimetterci son rimasti gli stessi poveri diavoli d’un tempo. Ci sono cose che a scuola si chiamano nozioni, ma se non le sai sei un ignorante. Il problema è che non si può “imparare a imparare” e “imparare a essere” affondando le proprie radici nel vuoto assoluto. Da qui a dire che nella scuola elementare ci si debba occupare “…dell’evoluzione dell’uomo dalla preistoria alle civiltà classiche, dalle invasioni barbariche in Europa al Medioevo…” ce ne corre: non se la prenda la “mamma” in questione, ma le sue imbeccate decisamente rétro sembrano voler rivalutare le “teste ben piene”, che noi vorremmo sostituire con delle “teste ben fatte”.

Il blog di Adolfo Tomasini, dove si parla di educazione e di scuola