Il dovere di educare e il diritto all’educazione

Con una progressione che fa una certa impressione, il pianeta giovani ha preso possesso in questi ultimi anni delle cronache giornalistiche, fino ad occuparle quasi quotidianamente: da quando è passato dai graffiti e le banali risse, agli abusi e alle molestie sessuali, agli stupri e ad altri odiosi comportamenti dalla valenza più o meno criminale, non c’è giorno senza che si debba leggere di tali prodezze. Fino a un po’ di tempo fa a tener banco erano i tafferugli, le grandi bevute, le vendette tra bande di bulli, il vandalismo esasperato e fine a se stesso. Una volta – a Muralto, mica nel classico Bronx – ci è pure scappato il morto, un giovane finito a coltellate per futili motivi. Per stare alle notizie più recenti, sul finire dell’estate alcuni sbarbatelli avevano saccheggiato e profanato il cimitero di Bosco Gurin.
Il logico corollario di una situazione del genere è rappresentato da riflessioni, dibattiti e inchieste più o meno ponderate. Diciamo però che c’è un po’ di confusione, e che sarà difficile, quanto inutile, trovare un capro espiatorio da potere additare al pubblico ludibrio. Nel caso delle ultime vicende, alla gogna sono finiti alcuni dirigenti scolastici e con loro l’intero Dipartimento dell’Educazione, rei di non aver segnalato i fatti alla magistratura penale; e la scuola è sempre più spesso sotto i riflettori accusatori, poiché col suo permissivismo esacerbato avrebbe contribuito alla diffusione di un buonismo e di un lassismo etico che han finito per infettare l’intera società. In altri casi la polizia è stata impallinata, perché non c’è mai quando dovrebbe esserci. Quasi sempre, infine, sono accusati i genitori, che hanno perso il controllo sui figli e non li sanno più educare.
Tutto vero, anche se in passato si è assistito a qualche manifestazione un po’ schizofrenica da parte del mondo degli adulti. Giusto tre anni fa, tanto per fare un esempio, c’era stato l’intervento della polizia durante una festa di studenti del liceo di Mendrisio: l’esercizio pubblico in cui festeggiavano era troppo piccolino e rischioso per contenere tutta quella folla, e poi c’erano minorenni alticci e forse qualche spinello di troppo. Nei giorni seguenti diversi genitori si erano rivolti all’opinione pubblica attraverso le immancabili lettere ai giornali, per censurare l’intervento poliziesco. D’altronde non è una novità che la scuola non è più in grado di richiedere il rispetto di talune regole, ed è facile che quando lo fa, magari di fronte a comportamenti decisamente inaccettabili, può incappare nelle ire di qualche genitore, che giudica vessatorio, autoritario o per lo meno esagerato l’intervento dell’insegnante o della direzione. Parallelamente capita che la polizia porti in guardina qualche giovane esagitato, ma – si dice – dopo la consueta stesura del verbale il giovanotto esce dal posto di polizia, magari applaudito dai compagni di merenda. Insomma: bisognerebbe sempre intervenire in termini educativi, scordando che anche la punizione può avere una funzione formativa.
Tempo fa il comandante della polizia cantonale, intervenendo proprio su questo giornale, aveva smascherato quei genitori che se la prendevano in malo modo con la polizia quando la pattuglia di turno riaccompagnava a casa qualche pivello sorpreso in giro a notte fonda, magari in preda all’alcol o alle droghe. Eccoci dunque al più classico degli scaricabarile. La soluzione, che per forza di cose semplice non è, non risiede certo nel reperimento di un’istanza sulla quale far leva per mettere a posto le cose. Non abbiamo bisogno di leggi violente e autoritarie, né di individuare un colpevole esemplare. Nel contempo non è più tollerabile l’ignavia di alcune famiglie: tante o poche che siano, è necessario che rispettino per prime le insostituibili norme che ne regolano il ruolo educativo, che è un loro dovere e un diritto dei figli. Politica, scuola, polizia e magistratura penale devono togliere dai loro ingranaggi la sabbia che, nel corso degli anni, ha inceppato l’intero funzionamento dell’istituzione. Ma fino a quando qualcuno potrà chiamarsi fuori, ogni sforzo sarà vano.

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