L’ampio dibattito è come l’araba fenice

La disinvoltura con cui il parlamento ha sepolto la proposta di diminuzione del numero di allievi per classe nelle scuole elementari, contenuta nell’iniziativa «Aiutiamo le scuole comunali», la dice lunga della serietà che caratterizza il dibattito sulla nostra scuola, un dibattito che tutti invocano, richiamando tanti bei princìpi, ma che in realtà è del tutto inesistente. Quello del numero ideale di allievi per insegnare bene è un tema ricorrente. Puntuale come la grippe, la proposta fa capolino con regolarità da almeno cinquant’anni, neanche fosse il toccasana di tutti i grattacapi. Personalmente non la penso così. Sta di fatto che i socialisti han sempre sostenuto la proposta dell’iniziativa, in mezzo al silenzio colpevole delle altre forze politiche. È ovvio che se per anni si tace, diventa difficile opporsi con qualche ragione fondata. La mia impressione è che molti siano contrari, ma non sanno perché. Così, in quattro e quattr’otto, il Gran consiglio ha inventato sui due piedi una misura che è ancor più discriminatoria della diminuzione lineare del numero di allievi per classe. Tant’è. Questo è quel che il Paese è in grado di produrre oggi a livello di dibattito sulla scuola di tutti, come se i problemi fossero solo la dimensione delle classi, le mense e il doposcuola, gli asili nido, i direttori da estendere a tutti gli istituti e il salmo svizzero.
Negli ultimi cinquant’anni la scuola dell’obbligo ha perso per strada i suoi principi fondatori, che avevano al centro l’educazione di futuri cittadini democratici e istruiti per vivere e gestire un paese libero. La scuola di oggi, messa assai spesso sotto pressione da tanti apprendisti stregoni, si è imbottita di educazioni e istruzioni, col risultato che non è più in grado di soddisfare le esigenze primarie del Paese – tanto che, per metterci una pezza con l’illusione di risolvere un problema, è già stata depositata una nuova iniziativa-cerotto («Educhiamo i giovani alla cittadinanza»). Quel ch’è certo è che, negli ultimi anni, si sono rafforzati l’insegnamento delle seconde lingue, i servizi parascolastici e tante nuove «educazioni», in una farraginosa accozzaglia di obiettivi che poco o nulla hanno a che fare con una scuola che vorrebbe insegnare ai cittadini di domani a «realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà»: senza arrivarne a una.
Sarebbe ora di uscire con piena coscienza dal particulare per aprire un dibattito serio sulla scuola. La scuola non è in grado di rispondere con concretezza e rigore a tutte le richieste che le piovono addosso, e non lo saprà fare neanche dimezzando il numero di allievi per classe. È dunque urgente aggiornarne le finalità e i contenuti, passando oltre l’ipocrita etica dei princìpi e aderendo invece all’etica della responsabilità. Ha scritto Adolfo Scotto di Luzio, docente di storia della pedagogia all’università di Bergamo (La scuola che vorrei, 2013): «La scuola va liberata di funzioni e di pesi che non le competono e messa al servizio di un progetto di sviluppo della nazione. Per fare questo è però necessario avere un’idea del paese, della sua storia, delle sue tradizioni culturali e sociali e del modo in cui è possibile rinnovarle. La scuola ha bisogno di questo. Non di tecniche e di burocrazia, ma di una rinnovata intesa su ciò che è degno di essere conservato e tramandato alle generazioni che verranno.» Eccolo, l’ampio dibattito di cui abbiamo bisogno.

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