Archivi categoria: Fuori dall’aula – Rubrica del Corriere del Ticino

Una scuola che sappia nutrire la libertà di pensiero e di parola

Un paio di mesi fa la giornalista Milena Gabanelli ha dedicato «Dataroom», la sua rubrica sul Corriere della Sera, a cosa conviene studiare per il lavoro del futuro. «Il 65% dei bambini che iniziano la scuola oggi, quando avranno finito faranno lavori che oggi ancora non esistono. E allora su che cosa conviene puntare per essere più sicuri di avere un lavoro domani?». La fonte è un rapporto del 2016 del WEF, «Il futuro dei mestieri: strategia per impiego, abilità e forza-lavoro nella quarta rivoluzione industriale». La giornalista cita alcune professioni, legate alle nuove tecnologie, che avranno un considerevole sviluppo. E osserva: «La formazione di queste figure nelle università italiane è iniziata solo dal 2016».

Appunto, questo è un problema della formazione terziaria e concerne così solo una porzione di giovani, mentre la scuola è obbligatoria per ognuno e per undici anni. Essa custodisce gelosamente la pretesa di saper preparare i suoi cuccioli alla vita adulta e al miglior inserimento professionale. Tant’è che, senza dichiararlo apertamente, i programmi di studio sono costruiti pensando più in particolare a chi, dopo i quindici anni, potrà continuare gli studi. Intendiamoci, fino a un po’ di anni fa questa scelta funzionava ed era per lo più condivisa dalla gran parte dei cittadini. Dopo la scuola elementare c’era il ginnasio di cinque anni, per chi era ritenuto più tagliato per lo studio sui libri e l’attività intellettuale; per gli altri c’era la scuola maggiore, di tre anni, trascorsi i quali, prima dell’apprendistato, c’erano le scuole di avviamento professionale e quelle di economia domestica. L’inserimento nel mondo del lavoro – o, per molte ragazze, il matrimonio, la maternità e i «lavori donneschi» – era praticamente garantito sin dagli anni ’50, e più si andava lontano con la formazione, più «da grandi» si sarebbero svolte professioni ben retribuite e socialmente riconosciute.

Il meccanismo è saltato ormai da un pezzo. Diciamo che le prime avvisaglie sono state avvertite quarant’anni fa, con le crisi energetiche degli anni ’70. Poi le nuove tecnologie, la caduta del muro di Berlino e la successiva, e per certi versi logica, globalizzazione dei mercati (e non solo) hanno fatto il resto. Ne consegue che per la formazione dei cittadini di domani la scuola dell’obbligo deve avere l’umiltà di ammettere che non ha doti divinatorie. Pretendere di sapere oggi quali competenze saranno utili domani per un bimbo nato in questi anni denota almeno ingenuità, se non un pizzico di arroganza. Edgar Morin, nel suo famoso «La testa ben fatta», afferma che educare non significa dare all’allievo una quantità sempre maggiore di conoscenze. Al contrario l’educazione deve «indicare che imparare a vivere richiede non solo conoscenze, ma la trasformazione della conoscenza in sapienza», cioè in scienza e saggezza, «e l’incorporazione di questa sapienza per la propria vita». Converrebbe insomma che la scuola dell’obbligo scegliesse di fare quel che ha fatto bene per tanti anni: educare cittadini, cominciando a gettare basi solide, in un ambiente sereno e alla larga da competizioni fasulle. Ha scritto la filosofa americana Martha Nussbaum: «Non si tratta di difendere una presunta superiorità della cultura classica su quella scientifica, bensì di mantenere l’accesso a quella conoscenza che nutre la libertà di pensiero e di parola, l’autonomia del giudizio, la forza dell’immaginazione».


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

EDGAR MORIN, La testa ben fatta – Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, 2000, Milano: Raffaello Cortina Editore, pag. 45

MARTHA C. NUSSBAUM, Non per profitto – Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, 2014, Bologna: Il Mulino | La citazione che chiude l’articolo è in realtà una sintesi, presente nell’ultima di copertina.

Un paio di idee per inventare gli insegnanti di domani

Nell’ultimo rapporto annuale della SUPSI, pubblicato in settembre, c’è un interessante contributo del direttore, allora uscente, del DFA. Il titolo anticipa i temi e accende l’interesse: «Le sfide della formazione degli insegnanti nei prossimi (20) anni». Michele Mainardi non schiva l’oliva e chiarisce il contesto che ci attende: «Le sfide della formazione saranno dettate dalla capacità di avvicinare il soggetto in formazione, unico e diverso, con tipologie familiari nuove, con vissuti, percorsi, storie e traiettorie significativamente diversi fra loro, aspetti tutti di una società globale, liquida, in movimento, che caratterizzeranno sempre più i referenti linguistici, culturali esperienziali individuali e quindi le conoscenze pregresse, gli interessi e le attese che ognuno porta a scuola».

Non sembra, eppure è la descrizione della situazione in cui agiscono i docenti già oggi, benché assai spesso ostacolati da un loro diffuso conservatorismo e dalle risposte dei piani alti della politica scolastica, che quasi mai riescono a proporre soluzioni che possano giovare agli allievi, alle loro famiglie e, in definitiva, al Paese.

Quali possano essere le risposte concrete, in materia di formazione dei docenti, per far fronte ai nuovi assetti socio-culturali, è naturalmente un altro discorso. E lo sa anche Mainardi, che annota: «Nell’universo digitale della rete del “2037”, le possibilità concrete che i docenti avranno di assistere, condividere e se del caso mediare/orientare personalmente l’esperienza individuale di bambini e adolescenti nel loro rapporto esclusivo, particolare e intimo con la realtà accessibile non è dato di sapere. Oggi tali possibilità sono molto limitate! Le interazioni con l’universo accessibile via e con l’ambiente digitale sono in ogni caso esperienze mediate, ma non per forza formative. Lo saranno? Sarà possibile renderle tali, riconoscerle, generarle in forma massiccia e valida?»

Reputo che non esistano spazi per dare risposte utili ed efficaci, se lo Stato e la politica – sindacati e associazioni di categoria compresi – continueranno a conservare a oltranza l’organizzazione del lavoro che conosciamo bene, proprio perché tutti noi ci siamo passati (e, prima di noi, i nostri trisnonni). L’insegnante che sa tutto, capace di fare tutto quel che professionalmente occorrerebbe sapere e fare, non esiste. Sarebbe come immaginare che il neurochirurgo si avventuri da solo in sala operatoria. Credere che la didattica e i piani di studio siano in grado, da soli, di rispondere ai grandi quesiti posti da Mainardi è una sciocchezza.

Volendo, si può supporre che serva un’impostazione diversa della professione. Per cominciare non deve più succedere che un insegnante sia il padrone onnipotente e indiscutibile delle sue valutazioni e delle sue scelte pedagogiche e didattiche. Forse è giunto il momento di dire a chiare lettere che allievi e studenti della scuola dell’obbligo devono essere affidati a équipe di insegnanti muniti di ricche competenze pedagogiche e disciplinari, che si completano e si arricchiscono a vicenda. Poi si dovrebbe riconsiderare il titolo che abilita all’insegnamento, affinché non sia più unico e definitivo: oltre a una chiara data di scadenza, da aggiornare con regolarità, si potrebbero immaginare livelli differenziati di competenza, per innalzare la qualità dell’insegnamento e, nel contempo, per creare una sana ed efficace mobilità professionale.


Qui è possibile scaricare il citato articolo dell’allora direttore del DFA.

È ancora possibile riformare sul serio la scuola?

Si sente spesso dire che la scuola è un cantiere sempre aperto, che poi, ogni tanto, crea il capolavoro, la riforma epocale. Tutto è storico, tutto è rivoluzionario – o, almeno, profondamente riformistico. Per restare a questo Cantone e lasciando perdere le iperboli della globalizzazione, credo che l’ultima riforma epocale della scuola ticinese sia l’istituzione della scuola media nel 1974. Insomma, tanti anni fa.

Se lasciamo perdere i tanti compromessi che si sono succeduti fino a oggi – i sistemi si assestano, per difendere le posizioni acquisite e far sì che i cambiamenti non siano troppo innovativi – bisogna ammettere che la storica decisione innescò innumerevoli altre trasformazioni: oltre alla soppressione della scuola maggiore e del ginnasio, la fondamentale riforma determinò la diffusione dei licei, l’ideazione di una nuova legge della scuola, la riforma degli studi magistrali, i nuovi programmi della scuola elementare.

Non da ultimo, la scuola dell’obbligo diventò più lunga di un anno, cancellando quei segmenti scolastici inventati per colmare il buco tra la licenza di scuola maggiore e il traguardo delle quindici candeline sulla torta: in pratica le scuole di avviamento professionale e di economia domestica.

Con gli occhi di oggi si potrebbe arguire che, in definitiva, non è successo nulla di importante, anche perché il mondo circostante è cambiato di più e più in fretta, mentre la cinica selezione scolastica è ancora lì a determinare gran parte della politica scolastica, spesso come atteggiamento reazionario nei confronti di una scuola media che, sino a oggi, non è comunque riuscita a mantenere tutte le promesse di quegli anni lontani, così ardenti e traboccanti di sogni.

Per chiarezza, sono dell’opinione che il progetto «La scuola che verrà» ha poco di storicamente rilevante, tanto che è ancora da capire se, nei confronti delle più alte finalità della scuola pubblica e obbligatoria, cambierà concretamente qualcosa. Per ora la selezione scolastica percorre ancora strade darwiniste, il calendario scolastico si rifà a quello della nascita della scuola popolare (oltre due secoli fa), l’organizzazione di base è impantanata nella sacra triade dell’insegnante che lavora nella Sua aula e coi Suoi allievi. Siamo fermi all’Ottocento.

Mi ha colpito una recente decisione del governo ginevrino, che ha allungato l’obbligatorietà della frequenza scolastica fino a 18 anni, quindi tre in più rispetto alla tradizione che prevede il «liberi tutti» a 15 anni. I motivi della decisione – che, di per sé, non ha niente di epocale, considerata la percentuale altissima di ragazzi che continua la sua formazione dopo il termine anagrafico – sono molto pragmatici: «Circa 1000 giovani, di cui la metà minorenni – ha scritto la Tribune de Genève – interrompono annualmente la loro formazione alla scadenza dei 15 anni. Secondo il Dipartimento dell’istruzione pubblica il rischio che si ritrovino disoccupati è quattro volte più alto di ogni giovane diplomato». Pensiamoci. Il limite dei 15 anni prima di andare a lavorare è stato fissato quando il mondo era un altro. Quella sì, potrebbe trasformarsi in una riforma epocale, perché permetterebbe di riorganizzare da cima fondo una scuola nuova – sempre che al Paese importi qualcosa di formare cittadini critici, cólti, competenti e – perché no? – pure felici, pronti ad affrontare nuove sfide ogni giorno che passa e a contribuire al benessere di ognuno.

«Da grande mi piacerebbe davvero fare l’insegnante»

Ai primi di dicembre i mass-media hanno riferito diffusamente di una ricerca commissionata dal DECS al Centro di ricerca sui sistemi educativi del DFA: «Lavorare a scuola. Condizioni di benessere per gli insegnanti». Ha riassunto il committente: «L’8% dei docenti presenta sintomi di gravità media o elevata da esaurimento legato alla professione (burnout)». I dati dicono che l’80% dei docenti non sta rischiando lo sfinimento, mentre quell’altro 20%, mica un’inezia, è a livello di guardia. «Solo pochi docenti – continua il comunicato – presentano sintomi di gravità media, e una minima parte di gravità elevata». Sui motivi che innescano il burnout, la ricerca menziona «l’accresciuta diversificazione dei compiti, l’aumento della responsabilità educativa e il peggioramento dell’immagine della professione diffusa a livello sociale». Cosa fare coi dati emersi non è naturalmente un problema dei ricercatori, anche se Luciana Castelli, responsabile del progetto, ha tenuto a gettare acqua sul fuoco attizzato da qualche catastrofista. Ad esempio il portale tio.ch titolava: «550 docenti sono ‘sfiniti’ e temono per il loro futuro nelle scuole». Giustamente la ricercatrice ha precisato che si tratta di una quota contenuta, che non deve inquietare, benché non sia da trascurare.

Come ogni ricerca ben fatta, anche questa dà qualche risposta e stimola nuove domande. Si sa che la storia personale di ognuno ha a che fare con la decisione di scegliere cosa si vuol fare da grande. È vero che il caso gioca le sue carte, ma a volte sarebbe interessante conoscere quali erano i motivi della scelta e le attese. Per restare ai docenti, ci sarà chi, magari per belle esperienze di volontariato con bambini e ragazzi, ha voluto trasformare l’episodio in professione. Ci sarà chi è stato incitato da motivi etico-politici, per contribuire all’educazione dei cittadini di domani. E ancora, qualche insegnante di scuola media avrà voluto trasmettere alle nuove generazioni il suo amore per la matematica, la letteratura, il tedesco o l’inglese, le scienze o la geografia – senza naturalmente escludere ragioni più prosaiche: ha scritto Don Milani – ma parlava degli anni ’60 – che «quel posto ha fatto gola a tanti cui di fare il maestro non importa nulla. Se aumentate l’orario spariranno tutti». Dissento, perché fare il maestro può essere un lavoro difficile e faticoso. Ma non si può escludere che ci sia chi imbocchi la carriera magistrale per le vacanze o per il sogno di una vita in cattedra, al di là delle severe selezioni per l’entrata al DFA e dei controlli impietosi esercitati da ispettori, direttori ed esperti di materia.

Allora, ci si può chiedere, chissà se queste moderne rarità pedagogiche saranno capaci di salvarsi dal burnout? Sarebbe interessante incrociare i dati di questa ricerca con le storie di ciascuno, con le sue realtà esistenziali, le scelte di fronte alla professione e al futuro. Forse da un esame di tal fatta uscirebbero elementi di rilievo per orientare la selezione dei futuri insegnanti e, soprattutto, per munirli, sin dalla formazione di base, delle armi più adatte per blindare le proprie sensibilità, rafforzare le fragilità e forgiare insegnanti credibili per la scuola della Repubblica, donne e uomini che sappiano insegnare con grande rigore anche ai più recalcitranti, e che siano in grado di formare, con lungimiranza, futuri cittadini nel caos sociale, politico e culturale odierno – ciò che non è scontato: perché nessuno sa come sarà il mondo vent’anni dopo.


Nel sito del DFA è possibile scaricare il rapporto e la rassegna stampa.

Una scuola ben fatta val più di una scuola ben piena

I giovani liberali ticinesi si sono fatti promotori di una mozione parlamentare, per far sì che l’inizio dell’insegnamento del tedesco sia anticipato. La proposta è naturalmente corredata da dotte citazioni, che, come un certificato medico, attestano la necessità impellente di iniziare al più presto la terapia, così da evitare complicanze. Il Consiglio di Stato ha risposto picche, e ha fatto bene. Marco Solari, interrogato dal «Mattino», ha detto che «le lingue hanno uno scopo pratico ed economico e uno culturale. Leggere Goethe, Heine, Mann in tedesco, come leggere Montaigne, Flaubert e Proust in francese, è arricchente e ti apre un mondo. Vale pure per l’inglese che, più del tedesco, è inoltre lingua franca, mondiale e indispensabile». Infine ha aggiunto che a tutti i giovani consiglierebbe di imparare il cinese standard, che è la lingua del loro futuro.

Non si può dissentire, neanche rispetto alle provocazioni di quel visionario di un Solari. A dirla tutta, c’è una lunga serie di discipline che non fanno parte dei normali piani di studio della scuola dell’obbligo, malgrado la loro rilevanza per l’educazione dei futuri cittadini. Per buttar lì qualche idea: la filosofia e la storia dell’arte, la sociologia e la psicologia, le scienze politiche e quelle economiche, il diritto, l’architettura e l’urbanistica, l’etica e l’estetica. Si aggiunga che da tempi immemorabili le diverse lobby disciplinari si lamentano di non avere ore a sufficienza nella griglia oraria settimanale. Ma ha mille ragioni il direttore del Dipartimento dell’educazione, Manuele Bertoli, quando si oppone con fermezza all’aumento delle ore scolastiche di insegnamento, alle quali bisogna aggiungere l’onere massiccio e variabile dei compiti a casa. I tempi formali della scuola sono quelli che conosciamo: trentasei settimane e mezza, ognuna con una trentina di «ore» di lezione, la cui durata aumenta un pochetto nel passaggio dall’elementare alla media. Se togliamo i tempi per le valutazioni, le settimane festaiole e qualche imprevisto, non resta granché, soprattutto se si intende ficcarci di tutto, dal sesso alla civica all’alimentazione. Eppure oggi è così che funziona, a costo di inscenare finzioni hollywoodiane: perché i piani di formazione sono una cosa, mentre quel che imparano realmente allievi e studenti un’altra.

Parafrasando Montaigne, che cinque secoli fa sosteneva che a una testa ben piena fosse preferibile una testa ben fatta, parrebbe che per la scuola di oggi, o per quella che verrà, l’impossibile quadratura del cerchio imponga scelte dolorose e irrinunciabili. Continuo a credere che la scuola, quella pubblica e obbligatoria, è cambiata pochissimo negli anni. I suoi tratti caratteristici li mantiene sin dalla nascita, ma oggi sono diventati un fardello ingombrante, benché si eviti di parlarne. Quella scuola lì ha prodotto frutti pregiati, ma oggi è esausta e boccheggiante. È strapiena di «cose». Il tentativo di rispondere a mille interessi particolari, prostrandosi ai piedi di un mondo del lavoro crudele, amorale e cangiante, è un errore dai costi altissimi. La scuola ben fatta è un’altra cosa, e implica scelte importanti: se si vuol mantenere a ogni costo la vetusta struttura odierna bisogna avere il coraggio di togliere dalle giornate di allievi e insegnanti tutto ciò che non è essenziale per educare i Cittadini di domani. I paraocchi corporativi, sindacali e un po’ nostalgici non valgono una cicca. Servono visioni.