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Sono passati cent’anni, ma la scuola vecchia resiste, in barba ai suoi acciacchi

Quando, il 1° agosto scorso, ho pubblicato qui la mia inchiesta sul IV congresso della Ligue Internationale pour l’Éducation Nouvelle (LIEN), che si era tenuto a Locarno dal 3 al 15 agosto 1927, non mi aspettavo certo immediate reazioni, soprattutto locali.Dal Ticino, che di questi tempi è al contempo elettrizzato – ehi raga!, c’è Locarno Festival – e sonnacchioso, non mi attendevo chissà quali sussulti. Se nessuno se n’è accorto per novant’anni, non sarà certo uno starnuto nel mio sito a far sussultare gli animi dei più (che sono in vacanza, mica al Festival del film).

Tuttavia ho ricevuto alcuni messaggi autorevoli, che mi hanno fatto piacere.

Per cominciare Marco Balerna, ex sindaco di Locarno, ha commentato così: Grazie Adolfo per averci ricordato che Locarno non è stata solo la «Città della Pace», ma anche «Città della Scuola». Se solo si fosse continuato e perseverato su certi principi e certe realtà… Ma così va il mondo: bisogna sempre ricominciare e ricominciare. Che fatica. Ma questo è il nostro destino di uomini.

Nei giorni seguenti, da Ginevra, dove ho studiato, mi sono arrivati altri messaggi che mi hanno fatto un poco arrossire: non cito gli autori, perché non ne ho chiesto il permesso, e non riporto cosa mi hanno scritto, perché va bene un po’ di vanità, ma vediamo di non esagerare.

Detto questo voglio segnalare due cose.

1. Il 14 e 15 settembre gli Archives Institut Jean-Jacques Rousseau organizzano un colloquio internazionale sul tema Genève, une plateforme de l’internationalisme éducatif au 20è siècle. Va da sé che l’utopia della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova ha molto a che fare con l’esprit éducatif genevois. Chi è interessato (io lo sono, ma in quei giorni dovrò essere a Locarno, perché c’è «Piazzaparola», di cui scriverò da qui a là) trova all’indirizzo indicato tutto quel che serve.

2. Inoltre: il mio fascicolo 1927: Locarno accoglie l’Educazione Nuova è ora disponibile anche nel sito di Lien International d’Éducation Nouvelle. Ne sono contento, perché anche così si offre una maggiore diffusione alle idee di cui sono portatori i due LIEN, quello di oggi e quello di un secolo fa, che continuano a sognare un cambiamento del contratto scolastico, per andare verso una scuola che non etichetti più nessuno e che non selezioni più la gioventù, ma la istruisca e la educhi, seriamente e con gioia.

Il Manifesto di LIEN, nato durante il simposio di un anno fa a Villeurbanne, nei pressi di Lione (lo si può scaricare qui) è di grande interesse, meglio ancora se si riesce a leggerlo tenendo in filigrana le (H)armo(S)nizzazioni odierne – in bilico tra editti dai toni suadenti e piani di studio di non esemplare chiarezza – la Scuola che verrà e i tanti dibattiti un po’ scontati, che si susseguono negli ambienti politici e si riflettono specularmente sui media.

Mi limito a citare due o tre argomenti, tratti dal Manifesto, che fanno spesso capolino nei discorsi dei politici e che, naturalmente, rispecchiano e rinvigoriscono i pareri dell’opinione pubblica.

  • La fratellanza confusa con la compassione, che valorizza l’aiuto e il sostegno ai più sfavoriti, rafforzando e legittimando in tal modo le disuguaglianze.
  • «Le pari opportunità», falsamente garantite dalla Scuola, che sono una frottola sociale, perché consolidano un sistema ingiusto, insinuando in ognuno il convincimento di «meritare» la propria sorte. Attraverso le cosiddette pari opportunità si impedisce che si protesti o che si esiga chissà che, dal momento che si è fatto di tutto per offrire a ognuno la possibilità di riuscire. Si tratta di una mistificazione che scaturisce dal presupposto che il successo degli uni e l’insuccesso degli altri si spiegano attraverso i “doni” ricevuti alla nascita o i meriti personali.
  • La certezza che la competizione accresce la motivazione, incoraggia l’apprendimento e giustifica sforzi e sacrifici, dissociando il piacere e il lavoro.
  • Transeat, invece, sul tema della differenziazione, un’araba fenice dalle millanta interpretazioni (di comodo).

Insomma: secondo un modo di dire comune la scuola, parlo di quella dell’obbligo, è un cantiere sempre in movimento, per dire che si è pronti ad affrontare, giorno dopo giorno, ogni novità.

Eppure, ogni tanto, viene il dubbio che anche la scuola, a immagine del capolavoro di Tomasi di Lampedusa, auspichi che sotto sotto «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».

Il fascino di imparare per imparare, e creare insieme cose bellissime!

In questo cantone smodato succedono a volte delle “cose” che converrebbe propagandare a dovere, mentre invece se ne viene a conoscenza un po’ per caso. Nel passato fine settimana gli occhi del Ticino tutto – si fa ovviamente per dire – erano rivolti agli appuntamenti referendari, quello cantonale sui rifiuti (partecipazione del 41.7%) e quello federale sull’energia (42.3% in Svizzera), alla Notte bianca di Locarno e alla manifestazione podistica straLugano (per la cronaca ha vinto un keniano).

Al LAC di Lugano c’era invece il concerto di Superar Suisse. Carneade? Sì.

Sono grato al direttore generale delle scuole comunali di Lugano, Sandro Lanzetti, che me ne ha accennato giusto due mesi fa, in occasione di un incontro informale e amichevole, e di aver messo in questa informazione tanta passione e un’emozione neanche troppo velata.

«Superar Suisse» è la ramificazione di un progetto europeo, che, a sua volta, si è ispirato al famoso «El Sistema», un modello didattico musicale, ideato e promosso in Venezuela da José Antonio Abreu, che consiste in un sistema di educazione musicale pubblica, diffusa e capillare, con accesso gratuito e libero per bambini di tutti i ceti sociali.

Superar è un termine spagnolo che significa andare oltre i limiti, vincere e crescere andando oltre i propri confini.

Si legge nel sito elvetico che «Superar utilizza tutte le possibilità e gli effetti positivi che la promozione musicale e artistica rappresentano, al fine di dare un notevole contributo al cambiamento in senso egualitario della società. Superar è stata fondata nel 2009 dal Konzerthaus di Vienna, il Vienna Boys Choir e la Caritas dell’Arcidiocesi di Vienna come un progetto musicale dell’Europa centrale ricalcante lo stile del progetto “El Sistema” venezuelano. Nel corso degli anni Superar è cresciuta rapidamente, sia in Austria che in altri paesi. Attualmente è attiva in 14 sedi in Austria e in dieci sedi in Slovacchia, Svizzera, Liechtenstein, Romania e Bosnia. Superar Suisse è stata fondata nel 2012. [Essa] rende reale un’educazione musicale di alta qualità sia nella formazione della voce e del canto, sia nella formazione strumentale orchestrale per tutti i bambini e adolescenti – a prescindere dalla loro origine familiare e situazione economica».

Per farla breve, ho assistito a un momento musicale e sociale molto appassionante, assieme a un pubblico folto, entusiasta e caloroso. Al LAC, domenica, c’erano i ragazzini del coro e dell’orchestra di Lugano (oltre cento ragazzine e ragazzini tra gli otto e i dieci anni), con i cori di Winterthur e del Vorarlberg e le orchestre di Zurigo e Milano. Sotto la direzione dei maestri Marco Castellini, Carlo Taffuri e Pino Raduazzo hanno dato vita a un’ora di belle emozioni, dove i termini di energia, entusiasmo e divertimento hanno caratterizzato l’evento, annullando le inevitabili esitazioni esecutive.

È vero che il seme originario – El Sistema venezuelano – nel frattempo ha generato l’Orquesta Sinfónica Simón Bolívar e ha lanciato nel firmamento artistico mondiale musicisti di sicura fama, uno su tutti il direttore d’orchestra Gustavo Dudamel. Ma la forza di Superar, discendente europeo di El Sistema, risiede nel grandissimo progetto di coinvolgere chi, per scelta autonoma, non avrebbe probabilmente mai imboccato un’avventura artistica come questa.

Sarebbe banale, e pure stucchevole, imboccare un discorso sulla forza educativa della musica d’assieme, che si potrebbe facilmente ergere a modello educativo. Però mi piace l’idea che questi ragazzi, sotto la guida e la partecipazione di maestri che non sono assillati da sciocchi traguardi di pagelle e certificazioni inoppugnabili e troppo spesso definitive, diano vita – gioiosamente e insieme – ad armonie che sono artistiche e, nel contempo, sociali. Qualche insegnamento lo dovrebbe pur ricavare anche la scuola dei test, degli esami reiterati e un poco tribunaleschi. Quella dell’immediata e finta spendibilità di acquisizioni scolastiche troppo spesso solo scolastiche.

Mi ha detto un collega luganese all’uscita: «Conosco tanti di questi ‘orchestrali’ e ti posso garantire che, tra i banchi di scuola, non sono sempre facilmente gestibili».

Chissà come mai a scuola no e in orchestra sì? Vuoi vedere che…

Superar Suisse sarà alla Tohnalle di Zurigo l’11 giugno alle 11.15 e il 29 giugno alle 19 alla Elisabethenkirche di Basilea.


I principi di Superar sono:

  • la regolarità e l’assiduità: almeno due lezioni, ma al meglio tre o quattro alla settimana.
  • Gratuità: La partecipazione alle lezioni Superar sono gratuiti per i bambini e genitori.
  • Pari opportunità: Superar si prefigge che tutti i bambini e i giovani possano accedere all’istruzione musicale, che si estende evidentemente in campo artistico e culturale. In tal modo Superar vuole rafforzare la loro partecipazione nella società e potenzialmente migliorarne le opportunità.
  • Preparazione artistica: Superar stabilisce elevati livelli artistici e di insegnamento per la selezione dei suoi tutor. Regolari aggiornamenti di essi anche contemporaneamente a Tutor Superar di altri paesi – che garantiscono l’alta qualità dell’insegnamento.
  • Respiro internazionale: Superar è finora l’unico progetto ispirato al programma El Sistema venezuelano, ad essere attivo in diversi paesi, tenendo concerti congiunti, corsi di formazione e incontri, sia per i tutor che per la direzione Superar, nonché per i bambini e gli adolescenti che ne fanno parte.
  • Ulteriori sviluppi: Superar è concepito come un programma di costruzione e formazione che fornisce moduli avanzati per permettere a tutti anche un futuro percorso artistico.

La scuola che verrà in un servizio del domenicale «Il caffè», con intervista al sottoscritto…

Nel suo numero del 2 aprile il domenicale Il caffè ha pubblicato un’inchiesta abbastanza esaustiva sugli umori del Paese nei confronti del progetto La scuola che verrà, di cui ho più volte parlato in questo sito sin dalla sua prima presentazione, nel dicembre del 2014.

L’ampio servizio si apre con una sintesi critica dell’inchiesta, firmata dal giornalista Clemente Mazzetta: «Ecco quale scuola vogliamo nel futuro». Poco sotto, arriva il commento del direttore del DECS Manuele Bertoli: «Investire nella scuola è investire nella società».

L’intero servizio, naturalmente, lo si può consultare nel sito del domenicale: http://www.caffe.ch/.

Come mi era già successo altre volte, anche in questo frangente sono stato interpellato dal giornalista, che ha pubblicato l’intervista col titolo generale Rigozzi e Tomasini sulla “scuola che verrà”. Ex direttori scolastici a confronto. Naturalmente è stato impossibile, per il giornalista, riportare per intero la nostra chiacchierata (mezz’oretta nel pomeriggio del 22 marzo). Così voglio concedermi il gioco di completare o commentare quell’intervista, distinguendo le domande del giornalista, le mie risposte e i miei commenti successivi.


È una battaglia da combattere ma evitando scontri partitici

«La scuola dell’obbligo ha bisogno di serenità. E deve essere sganciata dal continuo richiamo al mondo del lavoro. Anche perché non sappiamo quali potranno essere le competenze che fra 15 anni saranno richieste dalla società», sostiene Adolfo Tomasini, ex direttore della scuola elementare di Locarno.

Il Corriere del Ticino del 10 febbraio scorso aveva pubblicato una lunga intervista al prof. Emanuele Caranzano, direttore del Dipartimento tecnologie innovative alla SUPSI, dove tra l’altro si leggeva che «il 65% di coloro che oggi hanno 12 anni faranno dei lavori che oggi non esistono. In altre parole, tra 10 anni più della metà dei lavori saranno attività che ancora non ci sono». Si provi allora a immaginare queste percentuali ipotetiche se le volessimo applicare a quei bimbi che hanno iniziato la scuola dell’obbligo nel settembre scorso, a quattro anni, e che i vent’anni li compiranno nel 2028 o giù di lì.

Che impressione ha avuto leggendo la riforma della scuola?

Che pone degli obiettivi condivisibili. L’abolizione dei livelli e della media per l’accesso al liceo, il tutto all’interno di una scuola di qualità è una battaglia che si deve fare. Ma con intelligenza, evitando lo scontro ideologico e partitico.

Come ho scritto più e più volte, all’origine del progetto La scuola che verrà c’è una scelta schiettamente e fatalmente ideologica, che condivido. Ancora di recente ho scritto che «nessuno ha il coraggio di porre l’unica domanda fondamentale, che impone una risposta serena e trasparente: che scuola vogliamo? Una scuola per la democrazia e il Paese oppure al servizio dell’economia? In altre parole, desideriamo educare cittadini o selezionare e formare lavoratori?» (Una scelta per la scuola del Paese che verrà, Corriere del Ticino del 22.12.2016). Va da sé che io pendo con forza per una scuola dell’obbligo che educa cittadini democratici.

La riforma promuove una scuola equa e inclusiva. È sostenibile?

Sì, ma bisogna capirci bene sul termine inclusività.

Rimando al mio scritto «L’inclusione tra sogni e realtà», del 5 ottobre 2014.

L’obiettivo egualitaristico della riforma è forse troppo… egualitario?

Macché. Se per pari opportunità si intende che tutti possono andare a scuola, questa pari opportunità non significa niente. Anche l’ultima analisi statistica de “La scuola a tutto campo” (Supsi, 2015) ha ricordato come la condizione socioeconomica di appartenenza dei ragazzi resti una variabile importante nel fallimento scolastico. E se esiste ancora questa situazione, ha ragione Bertoli: qualcosa bisogna fare.

Nel merito è favorevole all’abolizione dei livelli?

Senza dubbio. Creano una divisione fittizia.

Tra l’altro parliamo di ragazzine e ragazzini di 12/13 anni.

Favorevole anche all’abolizione della media del 4.65?

Sì. È una media inventata. La prova che non serve a nulla è data dal fatto che oggi il 30% dei ragazzi che entrano nel liceo viene bocciato. Occorre invece mettere il ragazzo nella condizione di fare delle scelte consapevoli.

Nell’introduzione al servizio, Clemente Mazzetta ha ripreso una mia domanda, naturalmente retorica, che rimanda proprio a questa necessità di togliere di mezzo i livelli. Scrive: «Del resto come rispondere all’interrogativo dell’ex direttore della scuola media [comunale, in verità]  di Locarno Adolfo Tomasini (vedi intervista a lato) quando chiede di spiegargli “come fa uno a diventare ingegnere Supsi (cosa possibile partendo dall’apprendistato), dopo aver mancato la possibilità di iscriversi al liceo per non aver raggiunto il fatidico 4.65?” Per dire che ’sto 4.65, che è tutto fuorché una media matematica, dice solo che in quel momento lì quel/la giovane aveva un rendimento scolastico di poco superiore al quattro e mezzo.

Quando leggo che bisognerebbe innalzare la soglia del 4.65 per l’accesso alla scuola media superiore mi vengono i brividi, perché è un salto indietro pauroso: quella sarebbe una scuola per la pura e semplice crescita economica, a vantaggio di pochi, mica per il consolidamento della democrazia. Peggio dell’attuale, dunque.

La riforma non prevede troppi compiti per i docenti?

Forse sì. Ma non è questo il problema più importante. Del resto non ci sono soluzioni magiche.

Il compito primario dei docenti è quello di insegnare. Per insegnare bisogna conoscere bene ciò che si insegna (competenze disciplinari) e come si insegna (competenze professionali). Insegnare significa, grosso modo, “lasciare un segno”. L’insegnante professionalmente irreprensibile è quello che ‘non molla l’osso’, è quello che fa tutto il possibile per portare ogni allievo al limite massimo delle sue possibilità, senza perdere troppo tempo con esami e test reiterati (che, come già diceva Don Lorenzo Milani, è tempo rubato all’insegnamento).

La si smetta, insomma, con la storiella che l’egualitarismo porta automaticamente al livellamento delle menti, naturalmente verso il basso. La metafora trita e ritrita della siepe va bene solo per chi non sa o non vuole insegnare, cioè lasciare dei segni tangibili.

La ritiene una riforma economicamente sopportabile?

Non saprei. Ma mi urta questa concezione che vede ogni cambiamento come fonte di spesa, forse bisognerebbe verificare se si impiegano bene ora le risorse disponibili. Piuttosto il problema è di sostenibilità politica della riforma. Il Plrt si è pronunciato chiedendo un innalzamento dei livelli, più selezione. La Lega, con Lorenzo Quadri ha sostenuto che quello che si insegna a scuola deve essere deciso dal mercato, non da pedagogisti.

Il riferimento preciso torna alla campagna elettorale per il rinnovo dei poteri cantonali del 2011. Lorenzo Quadri, sul Mattino del 20 marzo, scrisse: «La scuola non potrà esimersi da un riorientamento nell’ottica di quelle che sono le richieste del mercato del lavoro. È evidente che le professioni “d’ufficio” sono sature. Mancano risorse nell’arti­gia­nato, nell’edilizia, nel sociosanitario. Altra misura necessaria: si metta il numero chiuso alle formazioni “letterarie” ed “artistiche” prive di sbocchi professionali».

Ma così la scuola dell’obbligo dovrebbe formare lavoratori non cittadini?

Sono convinto che in molti Paesi europei c’è una scuola per la crescita economica e non per il rafforzamento della democrazia. Ma non è con il corso di civica che risolviamo il senso civico dei cittadini.

Ha scritto la filosofa americana Martha C. Nussbaum: «Le nazioni sono sempre più attratte dall’idea del profitto; esse e i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé, criticare la tradizione e comprendere il significato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone. Il futuro delle democrazie di tutto il mondo è appeso a un filo.

Quali sono questi cambiamenti radicali? Gli studi umanistici e artistici vengono ridimensionati, nell’istruzione primaria e secondaria come in quella universitaria, praticamente in ogni paese del mondo. Visti dai politici come fronzoli superflui, in un’epoca in cui le nazioni devono tagliare tutto ciò che pare non serva a restare competitivi sul mercato globale, essi stanno rapidamente sparendo dai programmi di studio, così come dalle teste e dai cuori di genitori e allievi. In realtà, anche quelli che potremmo definire come gli aspetti umanistici della scienza e della scienza sociale – l’aspetto creativo, inventivo, e quello di pensiero critico, rigoroso – stanno perdendo terreno, dal momento che i governi preferiscono inseguire il profitto a breve termine garantito dai saperi tecnico-scientifici più idonei a tale scopo». [Martha C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, 2011, Bologna: Il Mulino].

È un palliativo?

Peggio. Si illudono le persone. Così come si illudono i ragazzi nel dire loro che se imparano dieci lingue a scuola poi si troveranno bene.

Ho scritto più volte dell’impegno esagerato e un poco fuorviante legato alla politica di insegnamento delle lingue. Mi piace citare due scritti: I nostri figli sapranno tutti l’inglese: per dirsi cosa? (25.10.2006) e Mi ha piaciuto molto!… (06.10.2004).

Morale?

Qualcosa bisogna fare. Occorre ripensare la scuola. Ma il clima politico di questo momento non è certo il migliore; c’è il rischio di fare due passi indietro.

Invito a una bella serata: un incontro con due scrittori che discutono del lavoro di crescere

Ne parlo anche perché ci ho ficcato il naso.

Lo so, è una brutta abitudine quella di mettere il becco nelle faccende altrui. E sì, concordo: mi si può inquisire per correità.

A mia discolpa posso dire che è bello lavorare con gli amici del DILS, il Centro competenze didattica dell’italiano lingua di scolarizzazione, di cui è responsabile Simone Fornara.

Parto dal centro: l’appuntamento è per giovedì 30 marzo alle 17.30, nell’aula magna dell’ex scuola magistrale cantonale, in Piazza San Francesco a Locarno, dov’è in programma un incontro che sarà nel contempo simpatico e di grande interesse.

Titolo: Il lavoro di crescere nel colloquiotra due scrittori.

Protagonisti: due scrittori, due romanzi, una conduttrice e una lettrice. E poi il pubblico, che mi auguro numeroso e appassionato.


Paolo Di Stefano (Avola, 1956) è inviato speciale del Corriere della Sera. È autore di numerosi romanzi tra cui «Baci da non ripetere» (1994), «Azzurro troppo azzurro» (1996, Premio Grinzane Cavour), «Tutti contenti» (2003, Superpremio Vittorini e Superpremio Flaiano), «Aiutami tu» (2005, SuperMondello), «La catastròfa» (2011, Premio Volponi), «Giallo d’Avola» (2013, Premio Viareggio-Rèpaci), «Ogni altra vita» (2015, Premio Bagutta), «I pesci devono nuotare» (2016).

Daniele Dell’Agnola, classe 1976, è docente alla SUPSI, insegnante di italiano alle medie, autore di romanzi, tra i quali «Melinda se ne infischia» (2008), «Baciare non è come aprire una scatoletta di tonno» (2014, con pièce teatrale tradotta in francese e tedesco), «Anche i bruchi volano» (2016). Ha ideato per il Corriere del Ticino la rubrica di narrativa Il bidello Ulisse, che è diventato un format su Teleticino, dove presenta libri per bambini e ragazzi.

Di Stefano narra una storia vera, quella di Selim, un ragazzo egiziano che, con l’incoscienza e la forza dei suoi diciassette anni, attraversa il deserto e la Libia, fino a raggiungere il mare e imbarcarsi per l’Italia. Dopo fatiche, stenti e preghiere sussurrate, il viaggio lo conduce in Sicilia, insieme a centinaia di migranti in cerca di sogni. Il suo è il più grande e ambizioso: vuole un riscatto dall’infanzia che si è lasciato alle spalle, parlare l’italiano meglio degli italiani, costruirsi un futuro. Selim, a Milano, non è solo. Dentro e accanto alla sua vita ne scorrono altre, meno luminose ma altrettanto esemplari: la dolce Marlene, il ruvido Raymon, l’amico Tawfik e alcuni misteriosi angeli protettori, in un mondo che cambia velocemente, dove si innalzano barriere per difendersi da ciò che non conosciamo.

Anche la storia di Dell’Agnola parla di adolescenti, ragazzi e ragazze in bilico tra una fanciullezza più o meno felice e un’età adulta misteriosa e che può intimorire. Felix, dodicenne in affanno, iperattivo e ribelle, vive in un quartiere ai margini della città. Ama la cultura, odia la scuola e Marcello Porcello, figlio del pediatra che gli somministra metilfenidato come fosse cioccolata. Si rifiuta di frequentare la scuola, così è seguito da un’orda di psicologi, pedagogisti, medici e specialisti, che lui definisce i «draghi drugugubri». Un giorno incontra Alice, misteriosa ragazzina piuttosto vivace. Con lei e altri amici vivranno una metamorfosi grazie ad avventure e tragedie, alle prime esperienze sessuali e al desiderio di scontrarsi, misurarsi… e volare.

Christelle Campana, giornalista del TG della Radiotelevisione svizzera, sarà la conduttrice della serata.

 

 

 

Sara Giulivi, docente e ricercatrice al DFA della SUPSI, che ha alle spalle una formazione come attrice presso il Centro Teatro Internazionale di Firenze, leggerà alcune pagine significative dei due romanzi.

 

Spero davvero di salutare un pubblico numeroso, perché ne varrà la pena.

La cartella dell’allievo e la statua di Pigmalione

Ovidio, nelle Metamorfosi, racconta che lo scultore Pigmalione, «con arte invidiabile, scolpì nel bianco avorio una statua, infondendole tale bellezza, che nessuna donna vivente era in grado di vantare: e s’innamorò dell’opera sua», sognando che un giorno si animasse. Così, quando venne la festa di Venere, depose le offerte accanto all’altare e disse: «O dei, se è vero che tutto potete concedere, vorrei in moglie una donna uguale alla mia d’avorio». Venere esaudì la preghiera e Pigmalione, tornato a casa, vide la statua animarsi a poco a poco, respirare e spalancare i suoi occhi bellissimi.

Étienne Maurice Falconet (1716-1791), Pygmalion et Galaté (1763), marmo, Museo dell’Ermitage a San Pietroburgo

In educazione è noto l’«effetto Pigmalione», così definito cinquant’anni fa da due studiosi, Rosenthal e Jacobson, che idearono un esperimento singolare: selezionarono a caso un certo numero di ragazzi di scuola elementare e dissero agli insegnanti che si trattava di alunni molto intelligenti. Dopo un anno tornarono in quella scuola e verificarono che i loro «genietti», benché scelti casualmente, avevano confermato le previsioni, migliorando notevolmente il rendimento scolastico, tanto da giocarsela in volata per essere i primi della classe. Non è necessario essere molto sagaci per capire che il trucco funziona anche al contrario: di’ al maestro, con le giuste parole, che Pierino non è un fenomeno, e facilmente il pregiudizio farà il suo corso, inevitabile e spietato.

Per restare in tema di storie, in queste ultime settimane si è letto che un gran numero di insegnanti delle scuole elementari non ne vuol sapere della «Cartella dell’allievo», uno strumento introdotto cinque anni fa, che sarà pian piano esteso a tutta la scuola dell’obbligo e che vorrebbe evidenziare «gli elementi più significativi che descrivono il processo di insegnamento/apprendimento, supportando la progettazione degli interventi didattici e favorendo allo stesso tempo il flusso di informazioni tra i docenti in un’ottica di continuità progettuale». Alcuni collegi dei docenti si sono messi di traverso, e il malumore serpeggia da Airolo a Pedrinate. Gli insegnanti mettono anzitutto l’accento sul notevole peso burocratico che comporta la tenuta regolare della cartella, «burocrazia che – scrivono i maestri di Losone – più che portare vantaggi sottrae tempo ed energie preziose che ogni docente sicuramente preferirebbe poter investire in modo utile e proficuo nell’insegnamento, nella formazione e nell’aggiornamento professionale».

Non ho lo spazio per elencare tutto quel che dovrebbe finire in quel dossier, e la lista risulterebbe noiosa. Il fatto che più sconcerta, però, è che si chiede di raccogliere un’enorme quantità di dati sensibili, dimenticando che ciò che finirebbe nella cartella non sarebbe neutro. Non c’è nulla di scientifico e inequivocabile nel riporvi elementi che «testimoniano l’evoluzione degli allievi» o i racconti «dei momenti significativi in termine di conquiste di nuove competenze». Così il tempo smisurato per tenere aggiornati migliaia di fascicoli – tempo rubato all’insegnamento – non migliorerà di un ette la qualità della scuola, con la certezza che il passaggio di informazioni da un docente all’altro moltiplicherà successi e insuccessi colpevolmente inzaccherati dal pregiudizio. Allora è meglio leggere le bellissime storie di Ovidio, senza il bisogno di rinverdire i fasti ispirati dalla vicenda di Pigmalione e della sua incantevole scultura: perché quello è il Mito, mica la realtà.