Quando si contano gli allievi nelle classi

Puntuale come una grippe, con i primi tepori primaverili è arrivata l’ammuffita questione del numero di allievi per classe, che i maestri ritengono da sempre troppo elevato. Quand’erano quaranta se ne volevano trentacinque – e chi ha frequentato le classi di quaranta allievi tende oggi a divinizzare il suo maestro, perché quelli erano tempi e quelli sì ch’erano maestri.
Ne dà notizia l’ultimo numero del Risveglio, l’organo della Federazione dei Docenti Ticinesi (sarebbe poi l’associazione dei docenti pipidì), che ha in Agostino Savoldelli – già fervente sostenitore del sussidio alle scuole private, dove notoriamente le classi hanno effettivi esagerati… – uno dei suoi uomini più acuti. Quest’anno l’influenza è salpata da Arbedo-Castione, dove insegna Savoldelli e dove gli insegnanti hanno dato l’allarme e, a quanto scrive La Regione del 7 maggio, hanno scritto un’accorata [sic] lettera a Gabriele Gendotti, chiedendo che sia adottata “urgentemente […] una diminuzione sostanziale del numero massimo di allievi per classe”.
I motivi della richiesta sono più o meno i medesimi che gli epidemiologi avevano già reperito l’ultima volta che la tutto sommato innocua influenza aveva tormentato il nostro Cantone. La lettera cita tre fattori scatenanti. Il primo è “un grosso [doppio sic] aumento di allievi stranieri” che “si integrano nelle nostre scuole e contribuiscono all’arricchimento culturale”, ma che “hanno bisogno di un’attenzione particolare”. Il secondo è relativo ad una modifica dei programmi, che sono effettivamente cambiati, ma per colmo di sventura l’ultima revisione risale a diciotto anni fa. Il terzo, infine, parte da un presunto disorientamento di alcune famiglie sui metodi di educazione dei figli e sul modo di affrontare problemi particolari, che causano “un aumento di bambini con difficoltà di adattamento, di comportamento, di educazione che non sono facilmente gestibili in classe”.
Naturalmente Diego Erba, direttore della Divisione della scuola del DIC, a precisa domanda postagli da non so più quale quotidiano ticinese, ha precisato che la media cantonale di allievi per classe è attestata attorno a venti, facendo finta di non sapere che in giro per il Cantone vi sono sezioni ridotte all’osso, mentre le classi di 24 o 25 sono assai copiose, indipendentemente dalle qualità specifiche delle popolazioni scolastiche locali. Giocare a rimpiattino col numero massimo di allievi per classe è, in fondo, un modo poco raffinato per evitare il nocciolo della questione, che risiede in parte in ciò che la scuola elementare dovrebbe insegnare e in parte nella stessa struttura organizzativa della scuola, ancor sempre basata sul trinomio «un maestro, un’aula, una classe». Cerchiamo di capirci: non è vero, per cominciare, che esiste un numero adeguato di scolari per far scuola (bene), ma ne esistono più d’uno. Un dettato può essere assegnato indifferentemente a tre o a trenta allievi, così come il numero di allievi è irrilevante per ascoltare una storia raccontata dal maestro o per seguire un documentario. Viceversa, aiutare un allievo in difficoltà a superare un ostacolo linguistico o matematico presuppone un impegno più individualizzato.
Oltre a ciò il numero di allievi per classe rappresenta una media, che come tale dice tutto e tace su tutto. Ad esempio, in un istituto di duecento allievi potremmo avere sette sezioni più che adeguate – 17/18 allievi per classe – e tre sezioni numericamente spropositate. Far fronte al problema ritoccando il numero massimo di allievi per classe, invece, si traduce in un assurdo aumento dei costi, in un’altrettanto insensata diminuzione del numero minimo di allievi e, soprattutto, assicura che si continuerà sulla strada dell’omologazione delle pratiche pedagogiche odierne, anche laddove la realtà contraddice platealmente talune enunciazioni di principio.
Nel caso dell’esempio appena citato, quindi, basterebbe che i maestri collaborassero concretamente tra loro – e con i loro colleghi che insegnano le cosiddette materie speciali – per far variare il numero di allievi, adattandolo alle necessità sostanziali e considerando di volta in volta che certe pratiche presuppongono gruppi di allievi omogenei, altre danno risultati migliori grazie all’interazione tra competenze e capacità molto diverse, e altre ancora sono basate sul lavoro individuale di ogni singolo allievo. La rivendicazione che parte stavolta da Arbedo-Castione e vien fatta propria dal Risveglio – che in tal modo fa stucchevolmente suo un tema che fino a ieri era peculiare alla sinistra – rischia unicamente di lasciar sul campo di battaglia qualche morto e qualche ferito, senza riuscire a intaccare minimamente la qualità della scuola: in realtà per guarire dalla grippe, non sempre la soluzione ideale sta nel primo medicamento che salta in mente.

Scuola, istruzione ed educazione

Ammetto che il “Giornale del Popolo” non fa parte delle mie letture preferite, soprattutto da quando Giuseppe Zois lo dirige con piglio curiale. Però ogni tanto mi trastullo sfogliandolo, non fosse che per informarmi su quanto passa il convento del cattolicesimo accreditato. È così che sabato scorso sono incappato, in prima pagina, su un editoriale del direttore, che ha attirato immediatamente la mia attenzione con un titolo accattivante: “Cambiare registro culturale”. Toh, mi sono detto: vuoi vedere che la Santa Romana Chiesa è diventata abortista o che il Papa ha deciso di consentire il matrimonio ai preti e alle suore? Insomma, “culturale” è una parola di peso, per cui un lettore – seppur distratto come lo posso essere io – si aspetta stravolgimenti tali da incidere non solo sul popolo dei cattolici, ma sull’intera società civile.
Delusione annunciata, invece, perché il “registro culturale” di cui si parla – un po’ a sproposito, a dire il vero – è di tutt’altra pasta. Commentando i fatti di Erfurt, dove un giovane espulso dalla scuola ha fatto strage dei suoi (ex) insegnanti, Zois se la prende con “l’atmosfera che respiriamo e che avvelena soprattutto le nuove generazioni”: l’atmosfera sarebbe poi quella delle scene di violenza che i ragazzi vedono per anni e anni, dalla televisione ai videogiochi, e che possono trasformare in un batter d’occhio ogni innocuo adolescente in un giustiziere assetato di sangue.
La tesi, ovviamente, non è nuova, né originale. È dai tempi della diffusione massificata della televisione e degli audiovisivi in genere che una parte del mondo se la prende con la televisione, che induce all’ozio e all’indolenza, mentre istilla inesorabilmente il virus della violenza. Fin qui, dunque, nulla di nuovo, nessuno stravolgimento del “registro culturale”. Si trattasse solo del fatto che il direttore del GdP si serve di un caso drammatico, ma del tutto eccezionale, per farne una parabola e buttar lì il suo predicozzo contro la perniciosa vacuità di certi programmi, il suo editoriale non meriterebbe neanche un’energica scrollata di capo, tanto l’assunto è scontato. Ma Zois non si lascia sfuggire l’occasione per sparare sulla scuola, e sintetizzando alla carlona un paio di conferenze pubbliche, sciorina in cinque righe la sua riforma: “La scuola dovrebbe essere sempre di più anche un luogo che educa a diventare cittadini, a controllare i propri impulsi, ad ascoltare le emozioni e non soltanto aule dove si apprendono delle materie di studio, delle nozioni”. E conclude: “Ci vorranno sempre di più delle competenze psicologiche e ciascun docente dovrà anche essere un buon comunicatore”. Giuro che non ho riassunto nulla e che Zois ha scritto proprio e solo queste parole.
Si potrebbe argomentare a lungo sulla contrapposizione tra Educazione e Istruzione, magari per concludere che la Scuola potrebbe far bene entrambe le cose. Numerosi studiosi, un po’ in tutta Europa, sostengono da anni che i sistemi scolastici dovrebbero preoccuparsi dell’educazione alla cittadinanza e alla pace, invece che incenerire gran parte delle loro energie sull’altare della selezione scolastica più bieca. Ma Zois dovrebbe anche sapere che la strada che porta a questa scuola nuova è tutta in salita: non certo per colpa degli insegnanti o della burocrazia scolastica, tenuto conto che, almeno sino ad oggi, è tutto il sistema educativo ad essere costruito all’insegna della concorrenza spietata e dell’edonismo smodato. Il fallito tentativo di riforma del liceo francese, definitivamente affossato un paio d’anni fa dagli alti ufficiali della politica prima ancora che giungesse in Parlamento, la dice lunga sugli ostacoli che costellano la strada di quella scuola nuova di cui si parla da quasi un secolo.
Purtroppo, invece, la struttura stessa della scuola di oggi è ancora intrisa di cattolicesimo, tanta è la somiglianza tra i maestri di oggi, chiusi nelle loro aule alle prese con programmi desueti, e i chierici d’un tempo. E, d’altra parte, anche i cattolici nostrani potrebbero dare il buon esempio ed indicare la via maestra: potrebbero smettere di dar le note agli allievi che si iscrivono alle loro lezioni; potrebbero rinunciare al catechismo a favore dell’ecumenismo; meglio ancora, potrebbero mollare quell’ora settimanale di privilegio e collaborare con l’Associazione per la scuola pubblica per realizzare il progetto di Educazione al fenomeno religioso. A quel punto non saremmo al riparo dai pazzi, ma avremmo compiuto un perentorio passo avanti.

Alla ricerca di insegnanti di latino…

Devo qualche plausibile chiarimento ai sette tenaci lettori di questa rubrica, con i quali non intrattengo la quindicinale chiacchierata virtuale da oltre un mese. Non ero in vacanza, ma le ultime settimane son scivolate via senza particolari sussulti, ad eccezione di un paio d’avvenimenti stuzzicanti, che mi avevano ispirato due pezzulli. In prima battuta, prendendo spunto dalle vicissitudini d’inizio marzo del FC Lugano, mi ero cimentato con il rapporto un po’ incestuoso che intercorre tra le gesta degli sportivi attivi e il cicaleccio quotidiano dei loro cantori; poi avevo tentato di inserirmi nel tormentone che sta pungolando i pruriti del basso Ticino, confrontato con le piccanti imprese di quell’ispettrice scolastica che, secondo il Dipartimento, avrebbe compiuto atti definiti sconvenienti, e anche un po’ indecenti, con un’altra persona adulta bendisposta, nientepopodimeno che in un locale dell’amministrazione pubblica. Insomma: avevo supposto – sicuramente a torto, ma non è detto… – che tali accadimenti potessero in qualche modo prestarsi per un discorso critico su quanto di pedagogico esiste fuori dall’aula.
Ho desistito. Anch’io ho i miei lettori preventivi, dei giudici di prima istanza che mi hanno convinto, con modi suadenti, a ruspare nel mio pollaio, nell’attesa che le acque si calmassero e mi consentissero d’andare a grufolare nei pantani altrui: si può immaginare la situazione, ed eccomi dunque alle prese con un tema più fedele alla dottrina.
Di questi tempi le famiglie degli allievi di II media sono confrontate con decisioni che avranno un peso determinante, e di solito senza possibilità d’appello, sul futuro non solo scolastico dei propri figli. Di che si tratta? Come molti sapranno, la scuola media – che è scuola dell’obbligo, nel senso che tutti la frequentano coattivamente – è divisa in un primo biennio più o meno uguale per tutti, ed un secondo che statuisce in maniera di solito irreversibile chi potrà votarsi agli studi superiori e chi, invece, dovrà consacrarsi alle arti e ai mestieri. Ecco quindi che, giunti nel bel mezzo del cammin mediano, le famiglie devono disporre l’iscrizione ai corsi di base o ai corsi attitudinali di francese, tedesco e matematica: coi secondi – e alla precisa condizione di ottenere buone note – fra due anni si avrà l’accesso automatico alla scuola media superiore, autostrada per l’università; mentre coi primi ci si ritrova su una strada di campagna, dove, com’è risaputo, non si può smanettare a piacimento. Naturalmente i genitori non hanno molto da scegliere, perché a) il consiglio di classe offre disinteressatamente i propri preziosi consigli e b) per accedere ai corsi attitudinali bisogna ottenere almeno 4.5 nelle discipline scelte: si può quindi intuire cosa può capitare a quel genitore un po’ grullo, che iscrive il pargolo ai corsi attitudinali contro il parere dei chierici.
Il tutto, quindi, si delinea come un’enorme impostura, che fa a botte non solo con le capacità intellettive dei padri e delle madri, ma anche con i proclami che accompagnano la scuola media sin dalla sua nascita. Certo, si può sempre affermare – come molti ritengono vero e giusto – che è difficile estrarre oro da una zucca, soprattutto se vuota; e che se un dodicenne non è in grado di penetrare – che so? – i misteri dell’algebra o le declinazioni teutoniche, è inutile che s’illuda: per intanto seguitiamo ad aver bisogno anche di umili artigiani.
Nella scuola media vi è poi un terzo tronco, che potremmo definire super-attitudinale, destinato a quei quattro gatti che durante il primo biennio hanno vissuto sugli allori, in virtù di qualche capacità innata, di un pizzico d’astuzia e di una famiglia attenta allo svolgimento dei compiti a casa: giunti a ’sto punto a suon di medie imponenti, gli si suggerisce di iscriversi al corso di latino, che in III media è facoltativo e si svolge sull’arco di cinque lezioni settimanali, che fanno economizzare un’ora di italiano, una di francese, una di tedesco e una di… ginnastica o di disegno. Quale logica si celi dietro questa politica da ragioniere è difficile capirlo. L’unica cosa certa è che la scuola media diverrà scuola eccezionale (e, quindi, non più mezzana) il giorno in cui si sarà capito che la vera conquista della scuola pubblica e obbligatoria sarà, metaforicamente, il latino alla portata di tutti, col suo corollario di logica e storia e diritto e scienze umane: un reale zoccolo duro su cui costruire quell’educazione alla cittadinanza con cui tutti i dotti si riempiono la bocca, ma che solitamente finisce per fracassarsi sulla stucchevole e un po’ rancida ora di civica. Verrà il tempo in cui qualcuno dovrà pure insorgere contro questo stillicidio sociale e culturale consumato dallo Stato, che pretende di darsi un futuro sulla pelle dei dodicenni: a ogni buon conto per ora scarseggiano gli insegnanti di latino.

Perché ci vuole orecchio

La scuola è un argomento che tira. Lo dimostrano l’appena conclusa consultazione sulla riforma dell’insegnamento delle lingue proposta dal DIC, così come la votazione di un anno fa. Era praticamente dal ’68 che non ci si scaldava più tanto: forse siamo di fronte ad una svolta epocale, il che può essere di conforto, anche se il livello del dibattito, alle nostre latitudini, non è tra i più elevati in Europa e desta qualche seppure impercettibile apprensione.
Esattamente un anno fa il Ticino era andato alle urne sul finanziamento alle scuole private, respingendo seccamente l’iniziativa popolare. Anche in quel frangente il dibattito tra fautori e detrattori era stato ampio e agguerrito. Allora come oggi, però, non si era capito bene quale fosse il modello di scuola auspicato dai pro e dai contro, tanto che il fronte dei partigiani della privatizzazione aveva utilizzato l’icona di Stefano Franscini per la propria propaganda, sollevando le ire del fronte opposto, che si reputava l’unico depositario dell’idea repubblicana sostenuta nell’800 dallo statista leventinese. Ora, con la vertenza sulle lingue da insegnare, siamo daccapo, anche se i fronti sembrano essersi rimescolati.
È sempre difficile, in effetti, capire quale scuola si voglia, quali progetti si celino dietro le singole prese di posizione sul finanziamento, sulle mense, sull’inglese e via di questo passo. Prendiamo i collegi dei docenti delle scuole cantonali, le cui dichiarazioni sono diventate un must: evidenziano il loro essere al servizio dell’intero Paese, frignano se c’è qualche franco che rischia di prendere destinazioni diverse, si oppongono ad ogni minimo cambiamento e – alla faccia della scuola di tutti – continuano imperterriti ad esercitare il ruolo di braccio selettivo della finanza e dell’economia. Come non leggere tra le righe un’indegna difesa corporativistica?
Ha ragione, quindi, l’attuale presidente della commissione scolastica del Gran Consiglio, che dichiara ad un foglio domenicale: “Io credo che a decidere quali lingue si devono studiare a scuola non dovrebbe essere lo Stato né il DIC, bensì la società, il mercato”. Patapumm! Questo vuol dire parlar chiaro: il signor Claudio Bordogna dev’essere uno che ha orecchio e che, conseguentemente, ha inteso cos’è lo Stato, e non confonde una stecca con una geniale armonia. Intendiamoci, non si capisce se per Bordogna società e mercato siano la stessa cosa, oppure se l’una è complementare all’altro; ma ciò che conta è il significato generale del Bordogna-pensiero – che è poi il pensiero di molti, soprattutto dopo che il Dipartimento dell’istruzione e della Cultura si è adeguato, negli ultimi anni, all’idea di una scuola di servizio.
A questa stregua si potrebbe immaginare, in un futuro prossimo, di differenziare maggiormente l’offerta sin dalla scuola dell’infanzia, in modo da esaudire i sogni educativi dei genitori, specie da quando il mitico doposcuola – che sta proliferando un po’ in tutto il Cantone – ha sempre più connotazioni scolastiche (Non c’è l’inglese nei programmi scolastici? E allora la scuola organizzi il doposcuola!). Oltre agli indubbi risparmi (ottenibili con l’eliminazione di certo vecchiume dai programmi), non vi sarebbero più genitori insoddisfatti e rompiscatole, non dovremmo più preoccuparci del numero di allievi per classe e l’assunzione dei docenti avverrebbe a scadenze periodiche, in base alle richieste del mercato. Insomma: dopo la tassa sul sacco (chi consuma paga), si potrebbe cominciare a progettare la tassa sul banco, il che permetterebbe nuovi inevitabili sgravi fiscali, qualche licenziamento e, soprattutto, grane al ribasso. Con le leggi del mercato portate a questo livello, perché non architettare, dopo un doveroso periodo di prova, la tassa sul fucile d’assalto o quella sul decreto d’accusa? Perché, insomma, non studiare la possibilità di sottomettere anche l’esercito e la giustizia alle leggi del mercato?
Erano anni che il dibattito sulla scuola – anzi: sulla Scuola – non si spingeva più a simili altezze, ed è legittimo chiedere al presidente della commissione scolastica e ai suoi accoliti cosa aspettino a chiedere l’irrimediabile modifica delle finalità della Legge della scuola, scuola che – secondo il Parlamento cantonale – deve promuovere “…lo sviluppo armonico di persone [Tutte?] in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà”. Con l’applicazione delle leggi del mercato anche alla scuola, all’esercito e alla giustizia, plasmeremmo senz’altro una nuova aristocrazia, con il piccolo pregiudizio di quei concittadini che resterebbero sempre off. Ma il mercato non avrebbe problemi a smaltirli: in fin dei conti c’è sempre un gran bisogno di braccia.

Che ne è stato del 18 febbraio?

Povero Stefano! Fra cinque giorni sarà passato un anno dalla “storica” votazione popolare che aveva spazzato via le mene privatistiche arroventate da certo Ticino, ma le cose – in tutta schiettezza – invece che migliorare, come molti s’attendevano, sono peggiorate. Il direttore del Dipartimento dell’Istruzione e della Cultura, insediato da pochi mesi, aveva fatto il suo figurone: ai piedi del monumento al padre della popolare educazione ticinese aveva arringato le folle plaudenti: che sì, il Ticino liberale aveva dato una lezione ai conservatori, e che adesso avremmo messo a posto tutta la baracca.
Che ne è di quei fervori a un anno di distanza? Per prima cosa, un po’ dappertutto stanno spuntando mense e doposcuola. A parte la città di Locarno, che va controcorrente e chiude il suo, è tutto un fiorire di iniziative che contribuiscono ad esaltare la vittoria di un anno fa – dàndo così ragione a chi si chiedeva, nel pieno della campagna per la votazione, se si doveva votare per la scuola oppure per il tempo libero e la tavola apparecchiata. Nei giorni scorsi uno studente, probabilmente liceale, si lamentava con una lettera ai giornali per la pietosa fine che sta facendo il 18 febbraio; rievocava tra l’altro uno slogan del corteo di Bellinzona: “Privatizzare è privare, vaffa… a chi ci vuol provare!” e concludeva: “Cerchiamo di ricordarcene noi, perché il DIC sembra ci volti le spalle!”.
Öh, la pèpa! vien da esclamare. Ma ha proprio tutti i torti il nostro studente? Vediamo. Lasciamo stare l’asilo (pardon: la scuola dell’infanzia) e la scuola elementare: da quando il DIC ha fatto sapere di aver falciato quattro ispettori dal prossimo settembre, rimpiazzati dal potenziamento delle segreterie dei pochi ispettori rimasti, alle maestre e ai maestri non resta che affidarsi all’Alta Scuola Pedagogica, che andrà al voto granconsigliare proprio lunedì prossimo (toh! un altro 18 febbraio! che Dio ce la mandi buona!). È vero, molti sono i punti controversi. Ad esempio, c’è attrito tra i contendenti sulla sottomissione dell’Alta Scuola: al DIC o a se stessa? Visto come stanno andando le cose, c’è quasi da sperare che il DIC non controlli un bel niente: meglio la solita commissione paritetica, ché in medio stat virtus. Ma andiamo avanti.
La scuola media – che è ancora scuola dell’obbligo – continua imperterrita a bastonare i suoi studenti, un po’ con la storia dei livelli in matematica, francese e tedesco (chi alla fine della seconda non è in grado di seguire i cosiddetti corsi attitudinali in tutt’e tre queste materie, la scuola media superiore se la sogna), un altro po’ dimenticando quelle che sono le proprie radici storiche: l’istituzione della scuola media, negli anni ’70, ha spazzato via scuola maggiore e ginnasio, ma la nuova struttura ha smorzato “scientificamente” la libertà di scelta dei meno fortunati.
Nei licei, come scrive lo stesso studente di cui sopra, “… è in corso una riforma che sfavorisce il settore umanistico, che aumenta la selezione…” e che tende “…a sottomettere la formazione agli interessi del mercato”. Lapalissiano. Giorni fa ho girato nei siti internet dei nostri licei, alla ricerca di qualche interessante progetto umanistico, ma mi sono imbattuto solamente in programmi di matematica, di biologia, di chimica, di fisica. Per fortuna, se tutto andrà secondo i calcoli del DIC, tra non molto registreremo un risoluto colpo di reni: con la riforma dell’insegnamento delle lingue, forse potremo anticipare la selezione già alla scuola elementare. Grazie al potenziamento del francese fin dagli otto anni, si potrebbe inventare una media del 4.98 (prezzo innovazione) per accedere direttamente a nuovi corsi attitudinali della scuola media. Soprattutto dal punto di vista dell’economia – che è attualmente il fulcro verace della politica – la precoce selezione sociale permetterebbe di prendere i consueti due piccioni con una sola fava: si alleggerirebbe il liceo mandando a spasso quei due o tre insegnanti di italiano o di storia diventati ormai inservibili, e non vi sarebbero più problemi nel reperimento di lavapiatti, camerieri ed aiuto-cuochi (si sa, il Cantone ha vocazione turistica, ma meglio i nostri giovani degli immigrati, che non sanno neanche il dialetto; e poi: con quel minimo di sana autarchia occupazionale, abbasseremmo il numero dei senza lavoro e potremmo rispedire a casa un bel po’ di stranieri).
Insomma: chi un anno fa aveva votato contro la privatizzazione della scuola pubblica perché mosso da genuini slanci repubblicani, sappia che è stato raggirato. Si consoli sapendo che se anche avesse votato diversamente, per lui non sarebbe cambiato niente.

Il blog di Adolfo Tomasini, dove si parla di educazione e di scuola