Un codice etico per la scuola, tra princìpi e scelte concrete

Quello che ha chiuso da poco i battenti, in vista delle vacanze estive, è stato un anno scolastico un po’ strano, a tratti convulso. Accanto ad alcune novità che stanno pian piano facendo capolino, questo è stato l’anno dove si è parlato tanto del progetto «La scuola che verrà», accanto a piccoli e grandi cambiamenti, che hanno toccato un po’ tutti i settori scolastici. Siamo nel campo di tanti tecnicismi, che non sempre hanno lo stesso significato per chiunque – e certamente non suscitano chissà quali dibattiti, soprattutto quando gironzolano temi sui quali tutti diventano esperti: penso ai livelli della scuola media o alle soglie d’accesso al liceo, che assorbiscono tutta l’attenzione di politici, sindacati, mass media, insegnanti, genitori, imprenditori e perdigiorno. Così una significativa scelta del più grande istituto scolastico del cantone è assurta agli onori della cronaca al momento della conferenza stampa promossa dal municipio, verso fine febbraio, per poi essere travolta da tutta l’ingegneria di politica scolastica, tanto di moda in questi tempi globalizzati. Sto parlando del Codice etico di cui si sono dotate le scuole comunali di Lugano, presentato dopo un lungo lavoro di riflessione, di osservazione, di studio e di confronto. Il documento di riferimento è costituito da due paginette scarse, che illustrano pochi ma fondamentali principi attorno a professionalità, rispetto e sicurezza, che sono i valori ai quali le scuole comunali luganesi vogliono ispirarsi.

Va da sé che la definizione e l’adozione di un codice etico non risolvono da sole le incertezze e le grane. Sarà necessario tener desta l’attenzione, affinché procedure e abitudini molto alla moda non diventino tentazioni per declinare i principi fondatori del codice in dettagliati regolamenti, che in un battibaleno potrebbero trasformarsi nella lista minuziosa dei delitti e delle pene. L’altro rischio, più subdolo, è che, col passare del tempo, il Codice finisca nell’oblio. Certo, non sarà facile tenerlo in vita, alimentarlo, aggiornarlo, piegarlo con coerenza ai nuovi eventi e alle nuove emergenze. Sarebbe bello se alla riunione d’inizio anno, quando le maestre e i maestri incontrano i genitori dei loro allievi, e poi gli allievi stessi, ci si prendesse il tempo per condividere insieme qualche principio che soggiace al codice etico, delle discussioni attorno a problemi pratici e comuni: i compiti a casa; i doveri dei maestri e quelli dei genitori, che in parte si sovrappongono, ma in parte no; il ruolo del tempo libero e il diritto all’ozio; l’obbligo, per tutti, di ricordarsi che gli allievi delle scuole comunali sono ragazzini tra i quattro e i dieci anni; internet, facebook, twitter e affini. E che è ancora un po’ presto per impostare carriere imprenditoriali, accademiche o da podio olimpico. L’etica della scuola, a volte, passa prima di lì, poi dai grandi enunciati.

La scuola, col passare degli anni, si è arricchita, impoverendosi, di una miriade di leggi, regolamenti, norme, decreti e raccomandazioni. È quindi fondamentale avere il coraggio civico di manifestare un tale senso etico e culturale, per condividere le relazioni e lo svolgimento dei compiti di ognuno, nel rispetto dei diversi ruoli educativi, attraverso la professionalità e la garanzia della sicurezza totale: che non è solo quella fisica e morale, perché la scuola è un luogo dove si deve poter sbagliare senza rischiare chissà quali sanzioni, ciò che vale per tutte le sue componenti.

L’aula «Stefano Franscini», allestita nella sede delle Gerre delle scuole comunali di Lugano.

Qui è possibile scaricare il comunicato stampa del Municipio della città di Lugano, la cronistoria che ha portato all’adozione del Codice e il Codice etico.

Un atto di fede, tra scienza, religione e stregoneria

Si sa che sulla statistica circolano tante battute. Mark Twain affermava che Ci sono tre tipi di bugie: le piccole, le grandi e le statistiche. Poi c’è quella di Winston Churchill: Le sole statistiche di cui ci possiamo fidare sono quelle che noi abbiamo falsificato. E ancora: Le statistiche – secondo una definizione attribuita almeno a tre autori – sono come i bikini: si crede che mostrino tutto, ma nei fatti nascondono l’essenziale.

Queste sfuggenti e beffarde “definizioni” mi sono venute in mente mentre scorrevo avanti e indietro due quaderni di ricerca pubblicati qualche mese fa dal CIRSE, che si occupa di innovazione e ricerca sui sistemi educativi, un importante centro di competenze del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI.

Il quotidiano laRegione ha pubblicato il 14 giugno un articolo che ha attirato la mia attenzione, non fosse che si stagliava al centro della prima pagina: Prove cantonali, gli allievi più bravi sono socioeconomicamente avvantaggiati – L’origine conta.

To’, mi sono detto, questa scoperta proprio non me l’aspettavo. E a pagina 4 ecco l’articolo.

Bisogna convenire che l’articolo, in sé, non aggiunge nulla a ciò che sanno più o meno anche i paracarri protagonisti di un popolare modo di dire. Volendo si può leggere l’articolo scaricandone qui il testo completo: senza aspettarsi chissà quale rivelazione.

Dato che si tratta di uno studio basato sui risultati di un numero molto significativo di allievi – 3’000 di III per la prova di italiano, altrettanti di V per la prova di matematica – mi sono procurato i due rapporti:

Più che le variabili che influenzano il successo o l’insuccesso, mi ponevo qualche domanda più prosaica, cose semplici del tipo Qual è il grado di competenza in italiano in 3ª e in matematica in 5ª? Quali sono gli obiettivi specifici che risultano più ardui di altri? Insomma, cose così, domande semplici, da non addetto ai lavori, che possono semmai tramutarsi in ipotesi da addetto ai lavori.

Invece mi si chiede un atto di fede.

Dovrei dar credito a qualche dichiarazione riportata dal quotidiano bellinzonese. Ad esempio che per aver successo nelle nostre scuole conviene essere «Di nazionalità svizzera, madrelingua italiana e famiglia benestante». Oppure che «I risultati delle prove cantonali ci dicono che non siamo ancora al top». Poco più.

Così uno si dice, un po’ sommessamente: è tutto lì il famoso investimento nella scuola, un mantra che sentiamo come alibi per ogni contenzioso, solitamente più sindacale che di merito?

[Detto pr inciso: queste due ricerchine dicono che il numero di allievi per classe non influenza i risultati e che le pluriclassi, per male che vada, sono migliori delle tanto agognate monoclassi].

Volendo alzarmi un po’ di livello, devo prendere per buona qualche tabella un poco enigmatica. Per dire: a pagina 11 del quaderno sulle prove di italiano leggo che, in generale, l’italiano è misurato con un valore medio di 55.42, su una scala da 0 a 100. Nelle diverse “dimensioni” – la scala è sempre quella lì – abbiamo 58.48 per il lessico, 57.29 per l’ortografia fonologica, 57.36 per l’ortografia morfologica e 45.09 per la punteggiatura ortografica. Allora mi dico: se la scala mi dà l’imbeccata verso una lettura per percentuali, c’è poco da stare allegri, se neanche una “dimensione” arriva almeno al 60%, anche se le cifre dopo la virgola fanno molto “scienza”.

Ma i ricercatori del CIRSE mi bacchettano subito: Tutti i punteggi sono stati normalizzati in modo da assumere valori compresi tra 0 e 100. I punteggi non equivalgono però a percentuali corrispondenti al numero di esercizi svolti correttamente: ottenere 50 in un certo settore non significa infatti aver svolto correttamente il 50% degli item di quel settore.

Chiaro? No, questo è certo. Qualcuno è in grado di spiegarmi l’arcano? Cioè: che significa, anche solo all’incirca, che gli allievi di 3ª hanno raggiunto gli obiettivi dei programmi per un valore di 55.42?

55.42 cosa? È tanto, è poco o prendiamola così e accontentiamoci, senza far domande cretine?

Se poi mi do la pena di leggere, interpretare (a modo mio, ovvio) e capire le correlazioni con alcune variabili indipendenti del campione di popolazione – quali il sesso di allievi e insegnanti (loro lo chiamano gender, per chiarezza e politically correctness), la nota di condotta, il colletto blu o bianco dei genitori (tutt’e due?), tanto per citare qualche “novità” originale – allora me ne vengono in mente altre, che secondo me potrebbero rivelare qualche esclusione in più, da considerare nei dovuti modi.

Per dare qualche idea, non troppo a caso:

  • quanti genitori vivono là dove vive e cresce l’allievo, provenienti da dove, che fanno cosa e con quale ruolo gerarchico;
  • quanti fratelli e fratellastri, sorelle e sorellastre, vivono in quel nucleo;
  • quanti parenti e amici intimi vivono nel raggio di dieci chilometri;
  • quali allievi frequentano la mensa, il doposcuola e le colonie durante le chiusure scolastiche (e perché);
  • quali sono gli orari di lavoro di chi, a casa, si occupa dei figli;
  • chi prepara la colazione, il pranzo, la cena, e decide l’ora di andare a letto e di spegnere gli schermi;
  • quanti televisori, computer, tablet, cellulari sono a disposizione, e sotto il controllo di chi;
  • caratteristiche socio-economiche e socio-culturali non solo dei singoli allievi, ma anche delle comunità in cui gli istituti scolastici sono inseriti;
  • età, anzianità di servizio e itinerario formativo degli insegnanti (magistrale seminariale, post-liceale, ASP, DFA, ASP grigionese), e quanti anni di insegnamento hanno alle spalle;
  • numero di settimane di presenza del docente titolare durante l’anno scolastico;

Il mio agnosticismo, per fortuna, non è confinato negli angusti e consueti territori delle religioni.

In questo caso avrei salutato con grande piacere un qualche allegato, magari solo online, per capire, obiettivo dopo obiettivo e dimensione dopo dimensione, come erano costruite e presentate, anche graficamente, le prove somministrate agli allievi, cosa volevano concretamente analizzare, chi e quando le ha somministrate, e quanto era il tempo a disposizione di ogni allievo – compresi stranieri, alloglotti e indigenti.

Mi sarebbe anche piaciuto sapere con precisione come è stata valutata/misurata ogni risposta: cioè cos’era considerato corretto, sbagliato, sfumato…

E, volendo pretendere la luna, quali conoscenze/competenze non erano state misurate e perché.

Insomma: parrebbe obbligatorio attenersi alle sacre scritture e fidarsi delle interpretazioni che ne dànno i sommi sacerdoti.

Non so voi, ma io dissento: perché “ricerche” siffatte non servono a niente, non sono un buon investimento per il futuro dei nostri figli e della nostra società.

Le mediocrazia e la rivelazione che la scienza non è democratica

Nei giorni scorsi ho ricevuto due segnalazioni che mi sono sembrate molto interessanti, benché a un primo colpo d’occhio non si capisce cosa c’entrino la prima con la seconda. E, soprattutto, cosa possano avere a che fare con l’educazione.

Un amico e collega che stimo molto, sebbene di tanto in tanto ci si accapigli senza censure (ad esempio sulla storia del numero di allievi per classe), mi ha messo sotto gli occhi un’intervista pubblicata a fine maggio dal quotidiano La Stampa. Titolo: Mediocri di tutto il mondo vi siete uniti. E avete vinto. (Qualora il link non funzionasse, si può recuperare l’intervista qui).

L’intervistato è il filosofo canadese Alain Deneault, autore del saggio La mediocrazia. Naturalmente mi rendo conto della mia stessa mediocrità, nel momento in cui segnalo un articolo che gira attorno a un libro che non ho letto e di cui, fino a poche ore fa, non conoscevo l’esistenza. Forse lo stimolo che ne ho ricavato, e che mi porterà a leggere il volume con la necessaria curiosità, stuzzicherà anche la passione di qualche mio lettore.

Johannes von Kepler

Più o meno nelle stesse ore mio figlio mi ha pressoché imposto di recuperare e ascoltare con attenzione la puntata dell’11 giugno di In ½ ora, l’appuntamento settimanale di Rai 3 condotto da Lucia Annunziata, ospiti quel giorno Piero Angela, il più noto divulgatore scientifico italiano, e Roberto Burioni, medico, ricercatore e professore ordinario di microbiologia e virologia. Si è parlato di Scienza e opinione pubblica, una discussione di grande attualità, trattata con chiarezza e rigore: come si confà a una discussione su temi politici senza la protervia dei politici, anche se i temi erano immensi, come il riscaldamento del pianeta o i vaccini: ma lo si è fatto senza alzare la voce, anche quando la conduttrice ha messo sul tavolo argomenti non propriamente accomodanti.

Anche in questo caso invito gli amici che mi seguono a prendersi la mezz’ora necessaria per seguire l’emissione, che è ricca di spunti interessanti e, per tanti versi, “pedagogici”. Ad esempio che la velocità della luce non si decide per alzata di mano, a maggioranza, perché la scienza non è democratica.

Oppure s’incappa nella constatazione che nella scuola non si insegna la scienza, ma si insegnano le materie scientifiche – la biologia, la matematica, la fisica… ma non si insegna il metodo della scienza, l’etica [della scienza].

Vuoi vedere che la diffusione ormai quasi pandemica della mediocrazia ha a che fare con colpevoli strafalcioni educativi come questo?

Sull’educazione alla cittadinanza si andrà a votare

A pochi giorni dalle decisione del Gran consiglio ticinese di inaugurare l’educazione civica come nuova disciplina scolastica a sé stante, con tanto di nota sul libretto (si veda, in questo sito, l’ultimo testo che avevo pubblicato sul tema: Il Ticino sarà presto «Le meilleur des mondes possibles»), giovedì è arrivata la decisione da parte dei promotori dell’iniziativa: hanno deciso di non ritirarla, così che i ticinesi saranno chiamati alle urne (Civica, si andrà alle urne, Corriere del Ticino dell’8 giugno 2017).

Personalmente ne sono lieto. Tutta la faccenda sembrava un po’ folle e grondava di una certa dose di schizofrenia. Non credo che sia utile ripercorrere la cronaca recente del problema. Basti ricordare che l’iniziativa, che era stata sottoscritta da oltre diecimila cittadini, risale al 2013: al Parlamento sono occorsi quattro anni per generare un compromesso che, alla fin fine, non ha convinto nessuno.

L’imprenditore Alberto Siccardi, deus ex machina della proposta, ha detto che «Dopo molte riflessioni sull’opportunità di ritirare o meno l’iniziativa popolare sull’insegnamento della civica nelle scuole ticinesi e dopo aver ascoltato il parere dei promotori al proposito» è giunto alla decisione di non ritirare l’iniziativa, di assumersene pienamente le responsabilità e, dunque, di affidare la decisione finale al responso delle urne. E ha aggiunto: «Per chi un domani volesse ostacolare l’applicazione dell’iniziativa, sarà molto più difficile farlo schierandosi anche contro la maggioranza della popolazione, oltre che solo contro la volontà del Gran Consiglio».

Per quel che mi concerne voterò contro l’iniziativa e contro la decisione del Parlamento. Continuo a pensare che una materia scolastica così concepita non serve a un fico secco. Da segnalare che l’8 maggio l’Associazione ticinese degli insegnanti di storia ha pubblicato una Presa di posizione piuttosto interessante.

Sul quotidiano La Regione dell’8 giugno è invece apparso un articolo molto pregnante di Orazio Martinetti – Prima lezione di civica: Gramsci e Rosselli –, un brillante esempio per tratteggiare uno dei tasselli fondamentali di un’«Educazione civica, alla cittadinanza e alla democrazia diretta» che non si riduca a tre nozioni in croce, tanto per mettere in pace le coscienze sporche.