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Quando la diagnosi è impeccabile, mentre la terapia proposta aggrava la malattia

L’editoriale della Revue des deux mondes del 10 luglio 2018, a firma Valérie Toranian, riprende alcuni dati particolarmente sorprendenti di un’inchiesta nazionale denominata Fractures françaises.

«Il 46% dei giovani tra 18 e 35 anni – scrive la Toranian – è del parere che altri sistemi politici siano altrettanto validi della democrazia.»

«I risultati si possono riassumere così: più alti sono il livello di formazione e l’età, meno si mette in dubbio il valore della democrazia. Minore è il livello di formazione, più si appartiene agli svantaggiati e alle categorie popolari, più si relativizza il valore della democrazia».

«L’attaccamento alla democrazia si nutre di conoscenza, riferimenti trasmessi dagli anziani. Senza questo ancoraggio fondamentale si passa dal disinteresse alla politica in generale alla relativizzazione della democrazia stessa», osserva ancora la giornalista. Che fare, dunque? L’articolo propone un sunto delle soluzioni della politica, in particolare quelle del presidente Emmanuel Macron, che il 9 luglio si era rivolto al Parlamento francese riunito a congresso a Versailles (si veda, ad esempio, Congrès de Versailles : Macron théorise un social très libéral, su Libération. Si può trovare qui una copia dell’articolo).

Niente di nuovo sotto il sole, si direbbe scorrendo diversi passaggi del suo discorso: «In Francia si sono insediate le disuguaglianze del destino: a seconda di dove si è nati, della famiglia in cui si è cresciuti, della scuola frequentata, la sorte è assai spesso blindata. Queste disuguaglianze del destino, durante gli ultimi 30 anni, nel nostro paese sono progredite , che lo si voglia vedere o no». (Nel sito dell’Élysée si può leggere il discorso integrale di Macron: Discours du Président de la République devant le Parlement réuni en Congrès à Versailles).

Diffido sempre più delle teorie che vogliono essere sociali e, nel contempo, liberali. Addirittura molto liberali, aggettivo che,  da un po’ di anni in qua, nasconde e si mescola con liberista. Di solito si tratta di un’ammucchiata di contraddizioni: qualche intervento strutturale, tanta meritocrazia per docenti e allievi/studenti; è noto che il merito, come il mercato, sistema quasi naturalmente tante faccende. Per restare a Macron, ma non è il solo: tutti hanno «sa jambe gauche», da esibire sui pulpiti della politica. Una volta, almeno, c’erano i Radicali, ma non si sa dove sono finiti. Forse il compito era troppo complicato.

La morale della favola macronienne sembra persino scontata: la diagnosi è ineccepibile. Selon l’endroit où vous êtes né, la famille dans laquelle vous avez grandi, l’école que vous avez fréquentée, votre sort est le plus souvent scellé. La cura proposta predica l’esatto contrario. In effetti il paragrafo successivo recita:

Et pour moi, c’est cela qui m’obsède, le modèle français de notre siècle. Le réel modèle social de notre pays doit choisir de s’attaquer aux racines profondes des inégalités de destin, celles qui sont décidées avant même notre naissance, qui favorisent insidieusement les uns et défavorisent inexorablement les autres sans que cela se voie, sans que cela s’avoue. Le modèle français que je veux défendre exige que ce ne soient plus la naissance, la chance ou les réseaux qui commandent la situation sociale, mais les talents, l’effort, le mérite.

Splendida ossessione, ma se ne può fare a meno.

Facendo il verso a Flaiano (Ho poche idee, ma confuse), siamo davanti a un mucchio di idee, una più confusa dell’altra. Eppure c’è poco da sfottere Monsieur le Président de la République, perché senza le valutazioni reiterate e imprescindibili – tempo sottratto all’insegnamento, diceva Don Milani – la scuola repubblicana, quindi anche la nostra, non è in grado di assolvere i suoi compiti costituzionali.

Lo diceva già uno dei nostri maestri più importanti, John Dewey, che in Democrazia e educazione, un libro del 1916, scriveva:

Sul piano educativo notiamo […] che la realizzazione di una forma di vita sociale nella quale gli interessi si compenetrano a vicenda, e in cui vivo è il senso del progresso o riadattamento, rende una comunità democratica più interessata di quanto non abbiano ragione di esserlo le altre comunità in un’educazione deliberata e sistematica. La devozione della democrazia all’educazione è un fatto ben noto. La spiegazione superficiale è che un governo che dipende dal suffragio popolare non può prosperare se coloro che eleggono e seguono i loro governanti non sono educati. Poiché una società democratica ripudia il principio dell’autorità esterna, deve trovarle un surrogato nelle disposizioni e nell’interesse volontari; e questi possono essere creati solamente dall’educazione. Ma vi è una spiegazione più profonda. La democrazia è qualcosa di più di una forma di governo. È prima di tutto un tipo di vita associata, di esperienza continuamente comunicata. L’estensione nello spazio del numero di individui che partecipano a un interesse in tal guisa che ognuno deve riferire la sua azione a quella degli altri e considerare l’azione degli altri per dare un motivo e una direzione alla sua equivale all’abbattimento di quelle barriere di classe, di razza e di territorio nazionale che impedivano agli uomini di cogliere il pieno significato della loro attività.

E se la scuola moderna cominciasse finalmente a insegnare?


La citazione di John Dewey (1859-1952) è tratta dalla 4ª ristampa (1972) di Democrazia e educazione, nella traduzione di Enzo Enriques Agnoletti e Paolo Paduano (Prima edizione italiana, 1949, Firenze: La nuova Italia editrice).


L’inchiesta Fractures françaises 2018 può essere scaricata qui.

Al di là dell’aspetto scolastico, educativo e formativo di cui ho parlato, il rapporto contiene un’infinità di altri indicatori sulla percezione della situazione della Francia, sui valori dei francesi, sul loro rapporto col sistema politico e sulla loro percezione dell’Unione europea.

Va da sé che ogni riferimento a fatti, percezioni o circostanze che riguardano paesi europei che non siano la Francia non sono per nulla casuali.

E adesso chissà mai quale scuola verrà?!

Comincio dalla cronaca.

La fase di sperimentazione del progetto «La scuola che verrà», di cui si è parlato per la prima volta nelle ultime settimane di quattro anni fa (La scuola che verrà…), è stato accolto a maggioranza dal Parlamento cantonale lo scorso 12 marzo, dopo un lungo negoziato tra il Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport e i diversi partner interessati.

«Gli esami per la scuola che verrà», ha titolato il Corriere del Ticino del 13 marzo: La riforma del DECS ha superato un primo esame. Dopo un dibattito fiume durato oltre 5 ore, la maggioranza del Gran Consiglio ha detto sì – con 51 voti favorevoli, 19 contrari e 5 astensioni – al credito di 6.7 milioni di franchi per avviare la fase pilota a settembre. A sostenere la sperimentazione sono stati i deputati di PLR, PPD e PS mentre un chiaro no è stato espresso da La Destra e dalla maggioranza della Lega. Sollevato dal via libera parlamentare, il direttore del DECS Manuele Bertoli ha precisato come «questa non è una riforma socialista, ma un progetto che ha quale obiettivo quello di migliorare la scuola dell’obbligo riuscendo a seguire meglio gli allievi nella loro individualità».

Il sostegno dei tre partiti storici – PLR (partito liberale radicale), PPD (partito popolare democratico) e PS (partito socialista) – non è stato ottenuto senza costi: il DECS ha dovuto cedere diverse posizioni, tra le quali quella del mantenimento della soglia minima per l’accesso alla scuola media superiore, vale a dire il liceo e la scuola di commercio.

La festa, per ora, è sospesa

I festeggiamenti per il traguardo raggiunto con tanta fatica sono durati poco, perché i partiti che hanno avversato la sperimentazione hanno annunciato il lancio di un referendum. Ha detto il ministro Manuele Bertoli: «Il referendum è senz’altro legittimo, ma in questo caso è arrivato all’ultimo momento, un po’ tra il lusco e il brusco».

Il Corriere de Ticino del 15 marzo ha chiosato la reazione del direttore del DECS: Questa la reazione a caldo del direttore del DECS Manuele Bertoli, all’indomani della decisione dell’UDC di lanciare un referendum contro l’avvio della sperimentazione de «La scuola che verrà». Una presa di posizione, quella democentrista, annunciata a soli sei mesi dall’inizio della fase di sperimentazione. Fase pilota che, nel caso in cui le 7’000 firme fossero raccolte entro il termine dei 45 giorni previsto, slitterebbe ancora di un anno. E la conferma giunge dallo stesso Bertoli: «È un peccato, già abbiamo subito il rinvio l’anno scorso, e questo sarebbe il secondo stop al progetto. Infatti, in caso di riuscita del referendum, sarebbe troppo tardi per poter partire come previsto a settembre».

Sulla genesi del referendum il direttore del DECS si dice in parte perplesso: «Dal punto di vista procedurale i motivi sono democraticamente corretti, ma dal profilo della trasparenza e della deontologia politica mi permetto di esprimere dei dubbi». Bertoli lancia quindi una frecciatina al fronte contrario al progetto: «Il referendum credo poggi su due questioni. Da un lato la volontà espressa anche onestamente dal presidente dell’UDC di profilarsi, utilizzando la scuola come terreno di scontro eminentemente politico, in vista delle elezioni del prossimo anno. Atteggiamento questo che non è illegittimo, ma semmai indelicato perché la scuola è di tutti, oltre che un’istituzione estremamente delicata e sulla quale avrei preferito che una battaglia non si facesse. La seconda questione invece è più un confronto di visioni. La nostra proposta intende ammodernare la scuola ticinese secondo la tradizione, che è da sempre inclusiva e permette di dare ai docenti la possibilità di seguire uno per uno i ragazzi e all’interno di un contesto unico. Invece la proposta che La Destra aveva portato avanti era quella di una scuola selettiva, dove i bravi vincono mentre gli altri non si sa dove vanno a finire».

Ora resta da capire quale sarà la composizione definitiva del fronte referendario. Certo il sostegno di AreaLiberale e UDF, al riguardo i rappresentanti della Lega al momento preferiscono ancora non sbilanciarsi.

Io non avrei sollecitato il voto del Parlamento confidando nell’appoggio dei tre partiti citati (e tenendo conto delle importanti condizioni poste, nel merito e nella procedura sperimentale).

C’è un filo che unisce la scuola che verrà al voto sull’educazione alla cittadinanza

Non posso scordare, per restare ai temi scolastici, che pochi mesi fa il Ticino era stato chiamato alle urne sull’Educazione alla cittadinanza, per avallare una decisione parlamentare della maggioranza dei parlamentari, poi fatta propria dal popolo (v. Ecco perché non si deve banalizzare l’educazione civica).

Ricordo, per chi ha la memoria corta e/o a geometria variabile, com’era andato il voto in Gran Consiglio:

  • presenti 85
  • favorevoli 70 (La Destra 4, Lega 19, Montagna Viva 1, PLR 16, PPD 17, PS 8, Verdi 5)
  • contrari 9 (MPS-PC 2, PLR 3, PS 4)
  • astenuti 4 (PLR)

Esprimendosi sull’Educazione alla cittadinanza ci si esprimeva anche su una visione della scuola. Già in quell’occasione erano emersi i soliti trasformismi, il più appariscente dei quali è stato, a parer mio, quello del Partito socialista, che è il partito del ministro Manuele Bertoli: in quell’occasione aveva sostenuto il voto contrario durante la campagna in vista del voto popolare, benché in parlamento i contrari erano stati solo 4 (su 12 votanti).

Il voto parlamentare su La scuola che verrà è stato, peraltro, ben più sfumato:

  • 51 favorevoli
  • 19 contrari
  • 5 astenuti
  • 10 non hanno votato, benché presenti

E ora?

Sul Corriere del Ticino del 15 marzo è apparso il commento di un docente (Ivano Fontana, L’UDC, l’insegnamento e il nuovo che avanza, rubrica «L’opinione»), che così esordisce:

Non so se il giovane d’anni e già vecchio presidente dell’UDC cantonale ha frequentato la scuola media, quasi sicuramente sì. Probabilmente era già la scuola che aveva abbassato il livello di istruzione (a volte, scherzando con amici – anche loro già insegnanti – veniamo a dire che se la scuola pubblica, media e liceo, fosse stata più rigorosa e quindi meno generosa, certi giovani e non più giovani… leoni della politica ticinese non sarebbero lì dove sono, con grande guadagno per loro stessi e per chi deve sopportarli, soprattutto per chi deve sopportarli).

A questo punto – benché le 7’000 firme per la riuscita del referendum non siano ancora state raccolte – possiamo chiederci davvero come sarà la scuola che verrà, quella del futuro prossimo, perché chi ha promosso il referendum non si limita a chiedere lo statu quo, e nemmeno un semplice miglioramento della scuola pubblica e obbligatoria di questi anni.

L’idea è invece un’altra, punta alla selezione precoce delle future élite – poi, dall’élite in giù, ci si può immaginare la possibile scala gerarchica. Se ciò succedesse ci allontaneremmo ancor più dal modello virtuoso delle scuole dell’Europa settentrionale (v. Qual è il segreto della scuola finlandese?) e rischieremmo di avvicinarci a taluni sistemi scolastici asiatici, noti per le procedure “scientifiche” di selezione dei quadri, ma anche per gli elevati tassi di suicidio tra i giovani.

Stefano Franscini (1796-1857), che «Nel Ticino si adoperò senza tregua per la promozione della scuola, “elemento principalissimo dell’incivilimento nazionale”, fondando, tra l’altro, la Società degli amici dell’educazione del popolo» (Dizionario storico della Svizzera).

A quel punto qualcuno dovrà pur assumersi le responsabilità del disastro civico e culturale.

Personalmente avrei scelto la prima Scuola che verrà, quella del 2014, senza livelli e senza soglie per l’accesso alla formazione terziaria attraverso la scuola medio-superiore.

Chi ha scacciato l’Esprit de Locarno?

L’articolo sottostante è apparso sul Corriere del Ticino di martedì 6 febbraio, nella rubrica L’Opinione, col titolo «Locarno senza la bandiera europea». Vi sono naturalmente dei risvolti educativi, in questa vicenda sconfortante, che è però figlia dei tempi irresponsabili che stiamo vivendo.

A tanti politici locali piace evocare l’ Esprit de Locarno nei momenti topici. In quel 1925 il sindaco di Locarno sedeva tra i grandi dell’Europa del primo dopoguerra, con Austen Chamberlain, Gustav Stresemann, Aristide Briand e altri politici provenienti dal Belgio, dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia e dall’Italia.

La soppressione di un atto simbolico – l’esposizione della bandiera europea per la festa dell’Europa – non è educativamente neutra. Invece mette in risalto l’ipocrita autarchia di maniera di tanti ticinesi e svizzeri, che naturalmente non si spinge fino all’auto-isolamento in materia economica.

Scandalizzano i tempi e la circospezione, nonché l’indifferenza dei più, dopo che la notizia è venuta a galla. A ciò si aggiunga che, con buona probabilità, gli autori di questa meschinità e tanti loro ammiratori avevano sostenuto la «nuova» educazione civica come disciplina a sé stante nella scuola ticinese e si erano spellati le mani per applaudire l’obbligo di insegnare il Salmo svizzero: come diceva quello là, A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.


Locarno senza la bandiera europea

Da quest’anno la Città di Locarno non esporrà più la bandiera europea per la festa dell’Europa. Ne ha dato notizia questo giornale nella sua edizione di lunedì scorso. La decisione è stata presa a maggioranza dal municipio cittadino, che ha modificato l’ordinanza concernente il protocollo. Ha scritto il Corriere: «Ma quali sono i motivi che hanno portato il Municipio a questa decisione? Forse che Locarno si senta meno europea di un tempo? Impossibile ricevere una risposta. Anche perché l’Esecutivo, sebbene la modifica sia stata pubblicata in questi giorni, ne aveva discusso – adottando una specifica risoluzione – due anni fa». Perché tutto questo riserbo e tanto ritardo nell’informazione? Non si sa.

Lo stesso giorno della notizia Jacques Ducry, deputato di area progressista e presidente del Movimento Svizzera-Europa, ha reagito col dovuto sarcasmo su LiberaTV.ch, il portale diretto da Marco Bazzi: «È una decisione triste, molto triste, per una città che ha ospitato la conferenza sulla pace negli anni ’20… Una città che organizza ogni anno il Festival internazionale del Film, ricevendo crediti e personalità da tutta Europa e non solo. Una città turistica, aperta. Sono stupefatto da questa piccineria da parte del Municipio di Locarno. (…) Se non ci fossero l’Europa e gli europei Locarno sarebbe ancora un villaggio di pescivendoli!».

Dal medesimo portale è giunta la dichiarazione del municipale leghista Bruno Buzzini: «Ho portato io questa proposta – afferma – e alcuni colleghi l’hanno condivisa. Da convinto anti-europeista, ero e rimango contrario all’esposizione della bandiera sugli edifici pubblici. I motivi sono diversi: la Svizzera è ancora discriminata, essendo nella black list fiscale dell’UE, per esempio. Ma ci sono anche i mai risolti problemi di mancata reciprocità con l’Italia, con gli accordi che continuano a slittare…». Patapunfete, perché i motivi citati da Buzzini c’entrano come i famosi cavoli a merenda, dal momento che la Festa dell’Europa, di cui si parlava nella vecchia ordinanza sul protocollo, è per la Giornata del Consiglio d’Europa, organizzazione internazionale che promuove la democrazia, i diritti umani, l’identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa: Consiglio al quale la Svizzera ha aderito sin al 1963.

Resta il fatto che per raggiungere la maggioranza, al municipale leghista se ne devono essere aggiunti almeno altri tre. Certo, la collegialità merita grande rispetto. Ma non vorrei essere nei panni del sindaco di Locarno quando, come da consolidata tradizione, interverrà ufficialmente all’apertura della 71ª edizione di Locarno Festival – edizione che, per uno scherzo del destino, aprirà il sipario il giorno della Festa nazionale. Come ha evidenziato Ducry, «Gli argomenti di Buzzini sono dunque completamente strampalati! Un po’ di cultura non guasterebbe per un municipale della città della cultura».

Cos’altro aggiungere al fragoroso silenzio dei politici locarnesi (e della stampa)?

Sono cittadino di Locarno (Europa)

La dittatura dei voti a scuola, mentre lei si pavoneggia

Alla scuola piace pavoneggiarsi per quel suo essere sempre al passo coi tempi, un eterno cantiere aperto, attento alle novità, capace di predire i bisogni educativi del futuro, pronta a cavalcare la robotica e ogni altra magia della modernità. Eppure, a ben guardare, la scuola, al di là di tanti cicalecci, è una delle poche istituzioni pubbliche capace di riprodursi nei decenni sempre simile a sé stessa. Ogni tanto arrivano le riforme epocali – aggettivo usato da politici e addetti ai lavori, solitamente dopo estenuanti negoziati che, di solito, disegnano un maquillage imponente per enfatizzare i cambiamenti e nascondere tutto quel che resterà uguale a prima. Prendiamo il progetto «La scuola che verrà». Lanciato a fine 2014 ha incontrato da subito una frotta di fuochi di sbarramento. Per dire: «È l’ennesimo abbassamento della selettività della scuola. L’abolizione dei livelli porterà ad ulteriori difficoltà nel momento del passaggio nel mondo del lavoro». Oppure: «Ritengo fondamentale ristabilire la meritocrazia, cosa però difficilmente raggiungibile con la soppressione di valutazioni e licenze».

Se il parlamento darà il suo accordo – ma conosciamo gli abbracci malefici che si palesano quasi sempre tra i se e i ma – potrebbe partire sul breve termine la sperimentazione in alcune sedi della scuola dell’obbligo. Detto per inciso, gli istituti in questione non sono particolarmente rappresentativi sul piano scientifico: transeat. L’attuale «Scuola che verrà» non è più la versione originale, pur avendone mantenuto le fattezze iniziali. Il guaio è che il dogma della selettività non appartiene solo agli imprenditori di successo o ai liberisti d’assalto, quelli per i quali il mercato sistema ogni cosa. È sufficiente uno sguardo anche appena disincantato per vedere come tanti insegnanti siano loro compagni di barricata. Fatto sta che l’assioma della nota scolastica resiste alla globalizzazione, al web e a tutti i cambiamenti paradigmatici dell’ultimo mezzo secolo. Senza test e voti non ce n’è né per le scuole che vorrebbero venire, né per l’educazione alla cittadinanza, che rischia di nascere come materia a sé stante, soprattutto grazie alla nota.

È quasi comico, questo amore sviscerato per le valutazioni scolastiche, sintetizzate in un numero, cioè un indicatore che vorrebbe sembrare scientifico, benché sia soggettivo ed evanescente. Ivan Illich, il grande filosofo descolarizzatore, osservava che «Quasi tutto ciò che sappiamo lo abbiamo imparato fuori della scuola. Gli allievi apprendono la maggior parte delle loro nozioni senza, e spesso malgrado, gli insegnanti. Ma il tragico è che i più assorbono la lezione della scuola anche se a scuola non mettono mai piede. È fuori della scuola che ognuno impara a vivere. Si impara a parlare, a pensare, ad amare, a sentire, a giocare, a bestemmiare, a far politica e a lavorare, senza l’intervento di un insegnante. Non fanno eccezione a questa regola neanche quei bambini che sono soggetti giorno e notte alla tutela di un maestro». Infatti, se uno ci pensa, le cose fondamentali la scuola non le valuta, le discipline più importanti non figurano nel libretto scolastico. Come si misurano il senso dello stato, l’etica individuale, la capacità di ascoltare le idee altrui, la forza illuminista di lottare per la libertà, almeno quella delle idee?

Ecco perché non si deve banalizzare l’educazione civica

Da tanti anni trepido e, spesso, strepito per la piega che sta prendendo la scuola pubblica – la nostra, ma non solo.

Non sempre mi piacciono quelli che, un giorno sì e l’altro pure, firmano a mitraglia editti e petizioni, e cercano visibilità nei comitati di sostegno a questa o quell’altra causa: un fenomeno che, con l’avvento dei social, è cresciuto in quantità esponenziali. Tuttavia la votazione sull’Educazione civica, alla cittadinanza e alla democrazia mi preoccupa molto e così, stavolta, ho aderito con entusiasmo al comitato promotore per il NO a uno studio puramente nozionistico della civica.

Mi occupo da tanti anni di educazione civica e ne scrivo sin da tempi non sospetti. Aderire con entusiasmo al Comitato promotore per il NO a uno studio puramente nozionistico della civica è stato un atto quasi dovuto.

Clic sull’immagine per ingrandire.

In calce a questo scritto ho steso un elenco dei principali articoli che ho pubblicato sul tema dell’educazione civica nella mia rubrica sul Corriere del Ticino, il primo dei quali è dell’ottobre 2001. Si trovano tutti nel mio sito, Cose di scuola, assieme ad altri articoli.

In questi primi giorni di campagna in vista della votazione abbiamo già letto tante fandonie. Nessuno è contrario all’educazione civica. Ma bisogna opporsi all’istituzione di una nuova materia scolastica, che sarebbe “insegnata” (le virgolette non sono casuali) per due ore al mese, con tanto di immancabile nota sul libretto: dobbiamo opporci alla malacivica, che è un’educazione posticcia, improvvisata e illusoria.

Per non cadere anch’io nel trabocchetto della banalizzazione, evito il riassunto dei tanti argomenti di cui ho scritto in questi anni. Una solida educazione civica cresce vigorosa solo attraverso l’apporto di tanti attori educativi: dentro la scuola, certo; ma anche in famiglia, nei media, nella Società.

Ha scritto qualche giorno fa Aldo Bertagni che «A poco serve insegnare nozioni di civica, se poi manca quotidianamente l’esempio di chi dovrebbe avere intelligenza e coraggio per dare valore, lungimiranza e peso alla democrazia. Non è la civica che fa acqua in Ticino, ma la buona politica» [La cittadinanza è consapevolezza, laRegione del 29 agosto].

www.cittadinanza.ch


In questo sito vi sono innumerevoli scritti che riportano, più o meno direttamente, al tema dell’educazione civica (tag Educazione civica). Di seguito ecco invece una scelta di articoli più direttamente legati al tema.

Nella rubrica Fuori dall’aula
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